..
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Idillio di Primavera
 
 
 

I.

Allorquando i maestosi monti, le pareti imponenti, i nevai e i ghiacciai scintillanti, gli alti prati vasti e ondulati, si trovavano nel subbuglio di quel limbo posto da Madre Natura tra i rigori tenebrosi dell’Inverno e l’approssimante prima gaiezza policromatica della Primavera - primevo tripudio di tonalità rinascenti quali quelle così ben espresse, a mirabile esempio d’arte, nei paesaggi di montagna dalla grande mano di Giovanni Segantini - in quel clima non più troppo fresco ma ancora non giudicabile come caldo - quel tiepido spiro diffuso così simile al bacio delle labbra d’una splendida fanciulla ricevuto nel mezzo d’un’algida serata dicembrina - abbastanza caloroso da ben scaldare tutte le membra, non solo di semplice calore, e renderle vibranti di passionale gioia per ciò, come un’improvvisa esplosione d’energia vitale, quale era appunto la Primavera dopo il digiuno invernale - veniva piuttosto difficile andare per cime e pendii d’alta montagna - gran passione e diletto di Marco Alberici da sempre, da quando il padre Claudio gli decantava le bellezze alpestri dai percorsi di innumerevoli sentieri - dacché le condizioni certo non potevano definirsi ottimali, il meteo spesso irriducibilmente imprevedibile, il bianco manto nevoso molliccio e instabile, anch’esso incerto tra il permanente gelo notturno e il già forte calore del mezzo del giorno, e ogni elemento naturale che pareva essere in scompiglio, tutto preso dallo svestirsi dei pesanti abbigliamenti naturali spenti e protettivi per muoversi ad indossare quelli appunto più leggeri e colorati salutanti il nuovo ingresso della bella stagione...  Si avventurava allora, Marco, con una particolare gaiezza che frizzava nell’animo, in quel dedalo di viottoli e stradicelle che tagliavano le stupende campagne poste giusto dove le linee dei crinali lussureggianti di ogni rigogliosa vegetazione, provenienti dalla pianura e dalle basse valli, prendevano a ondularsi in maniera pronunciata, tra colline, vallette, praterie e dolci pendii, finché, appena sopra, esse s’impennavano decisamente verso l’azzurro cielo, sempre più ripide e rocciose, fino a diventare madri possenti delle arditissime creste degli alti picchi, quivi lasciandosi ricoprire dagli abbacinanti mantelli delle nevi eterne.  Si deliziava di queste passeggiate in ambienti sì soavi e estasianti, pareva nutrirsi di quegli olezzi gentili e delicati che provenivano dalle prime, prorompenti fioriture, che punteggiavano di brillanti colori i prati della vallata, che parevano divenire d’incanto dei verdissimi mantelli vellutati ove una favolosa mano avesse gettato miriadi di pietre preziose dalle più sfavillanti tonalità: giungevano alla sua mente i ricordi dei lunghi pomeriggi d’infanzia, nei quali, insieme al padre o a qualche parente maggiore, s’inoltrava per quel labirinti di tracciati vari dal gusto antico, correndo all’impazzata nella felicità più ampia del gioco, guidata dalla fantasia e scevra da qualsiasi grave pensiero. 
Ancora, oggi, egli sentiva di rigenerarsi in quelle fantasmagoriche oasi di Madre Natura: ognuno di quei luoghi parevano avvolti da una magia di vita potente e pulsante. Nel cammino, a volte spedito, altre volte calmo e pensoso, osservava con minuzia tutto ciò che di bello gli si presentava davanti, quasi che l’occhio avesse oramai acquisito la capacità di discernere al primo sguardo l’elemento di alto valore estetico da quello di più basso e volgare valore, e cercasse di trarre dalla bellezza senza confini del paesaggio naturale i più disparati spunti da tradurre poi in idee per ogni azione della vita quotidiana: per un semplice pensiero, per l’arredamento della propria dimora, o l’acquisto di oggetti interessanti, o ancora l’ispirazione per la creazione d’un qualcosa di artistico.
Particolarmente, poi, in quel periodo, la contemplazione della bellezza della Natura, o di qualsiasi altra cosa che si potesse fregiare di tale altissima qualità, gli poneva di ritorno in mente tutte quelle belle chiacchierate sul valore della bellezza che spesso sosteneva con passione in casa con gli ospiti o in compagnia di qualche caro amico: come se quei vibranti dialoghi che amava tanto scambiare – quasi un reiterato omaggio a quelle bellezze che egli tanto aveva a cuore - fossero stati per lui ogni volta una sorta di liberazione, uno sfogarsi, finalmente con persone nobilmente poste sulla stessa propria lunghezza d’onda, finalmente capaci di comprendere l’insieme dei suoi pensieri, ed anche un allontanarsi dalla piattezza e dalla grettezza che caratterizzava la maggior parte delle persone con le quali capitava di avere a che fare, soprattutto estrinsecate nelle di loro opinioni sulle virtù, i valori e le nobiltà che avrebbero dovuto caratterizzare l’essere umano nel pieno della propria essenzialità, ma che in quegli individui, indifferentemente maschi e femmine, parevano soltanto pesanti fardelli da abbandonare al più presto per far posto alle stupidità varie e assortite proposte e imposte dalla società contemporanea.
Quei discorsi, invece, egli amava rimembrare, quasi per ripassarli e tenerli sempre vivi a guida eterna della propria vita, come se dalle anime rilassate e insieme concitate le più pure volontà avessero fatto scaturire un illuminato codice di vita, un compendio di aneliti preziosi e necessari; e tornavano, essi, chiari e possenti soprattutto nella bellezza dell’ambiente naturale, in quel periodo esaltato nella sua sfavillante eleganza dalla rifiorente vitalità primaverile: s’inebriava tra quei viottoli, quasi sentendosi mescere con l’intera Natura, quasi ritrovando quella naturale origine che è propria d’ogni uomo, amava osservare il corso del ciottolato che curvava nascondendosi dietro un ciuffo di giovani castagni, poi scendeva verso un’idilliaca valletta nella quale s’osservava l’impalpabile nebbiolina di vapore acqueo sollevatasi dalle impetuose acque di un piccolo torrentello, irruente nello scrosciare di mille cascatelle perché ben rifornito dalla fusione delle nevi: poi, superato un grazioso ponte a due piccole arcate in mattoni di cotto rosso, risaliva inoltrandosi in un ombroso cespuglio di peschi e tigli selvatici, ove alcuni grossi e lisci massi, posti lì chissà quanti millenni fa dal movimento di antichissimi ghiacciai, facevano come da panche rocciose e invitavano alla sosta e alla riflessione nell’idillio naturale.  Il tutto – per egli amante della bellezza come dell’arte- massima rappresentazione umana della bellezza - pareva veramente una favolosa tela del miglior Piccio, nell’ardita e focosa sua rappresentazione della Natura, oppure il trionfo di quei luminosi valori che accompagnano i più bei lavori paesaggistici del Corot.
Così passeggiava Marco Alberici, con immensa, voluttuosa gioia in cuore e nell’anima: e sempre era così, in quegli idilliaci ambienti, tanto che, spesse volte, la buona predisposizione di spirito e l’incondizionato amore ch’egli provava per la Natura e le sue bellezze sortivano uno strano effetto al cuore, una sorta di indefinibile eccitazione, quasi una voglia di passione e di voluttà continuamente crescente e irrefrenabile, una improvvisa ebbrezza sensualmente estetica, come se il purissimo paesaggio arrivasse a rappresentare una sorta di ideale alcova naturale, un luogo di piacere e di ardori intensamente passionali, nel quale perfino i più bramosi, provocanti e lussuriosi istinti di godimento del corpo di una donna potessero consumarsi nel massimo incendio dei sensi e subito venir purificati dall’accondiscendente cornice della grande Madre naturale, accogliente tra i suoi preziosi tesori. Come un incantesimo, la mente creava immagini di splendide fanciulle sorgenti nel pieno della loro luminosa grazia da cespugli in fiore, a guisa di bellissimi spiriti elementali in perfettissima e affascinante forma di donna, con le quali abbandonarsi al trionfo dei sensi sul soffice e accogliente manto di fine e ancora bassa erba, verdissima più che la preziosa opale finemente mesciata con il nichel allo stato puro, in una sorta di doppia apoteosi, del corpo e dello spirito, una duplice unione, dei due corpi focosi nell’impeto del più passionale ardore, e di entrambi, insieme, con il grande corpo primigenio, la Natura alla quale ritornare sempre e comunque, e ancor più in quei momenti di completa esaltazione d’ogni parte della propria essenza personale, per grazia di bellissima e sensualissima donna dal fascino immane impresso nella fremente fantasia. Ecco, gran sensualità egli vi trovava in quell’idillio naturale, e facili quindi venivano le genesi d’immagini di irresistibile voluttà in quello stato sì perfetto.
 

II.

Così pensando, la mente rapita in mille meditazioni di piacere e di grazia estetica, il ventottente Marco, scapolo e di lontana e smarrita estrazione nobile, godeva della grande calma che gli sapeva infondere il paesaggio, unita ad una pulsante energia di vita. Prese la via che lo riportava verso casa, quella che, tagliando a mezza costa i radi filari di viti giusto poche decine di metri sopra il villaggio, si ricongiungeva al viottolo che saliva verso gli alpeggi e le più alte montagne, appena sopra il cancello d’ingresso al piccolo giardino familiare.
Nell’approssimarsi ad esso, lontano qualche decina di metri, e in moto di salita verso di lui, riconobbe una fanciulla, carissima conoscente, pur se la distanza ancora non permetteva di arguire finemente i tratti peculiari del viso. Ma la riconobbe, per vari motivi: vuoi per una certa e originale postura, ch’egli, quando vedeva la creatura che la originava per il paese o in altre occasioni, riteneva assolutamente elegante e gentile, vuoi per quella camminata sempre calma e posata, quasi che qualsiasi accenno di fretta potesse scomporre e inquinare quella naturale grazia, e vuoi, in più, per un certo non so che, un’indefinibile, indecifrabile, arcana attrazione che sempre egli sentiva verso di lei, molto soffusa, leggera ma sempre presente, forte pur se evanescente, come il bel sogno resta nella mente di chi lo ha vissuto pure per molto tempo dopo il risveglio, al contrario dell’incubo che la memoria tende a cancellare subitamente con forza e decisione: e la di lei immagine, eternamente, stazionava a guisa di fondamentale arredamento mnemonico sulle mutevoli pareti della mente, discretamente celata dietro i veli dei quotidiani pensieri eppure sempre presente, soave, leggera, delicata, rivestendo come un preziosissimo e vellutato parato il perimetro ideale del suo intelletto.
Si chiamava Federica Serassi. Si conoscevano da tanti, tantissimi anni, per la conoscenza che intercorreva tra le rispettive famiglie, ma mai s’erano frequentati in qualche modo più assiduo che nell’attimo dell’incontro fugace per la strada, o solo poco più, e sempre in compagnia d’altri, mai soli, mai nella possibilità d’usufruire di quell’ambito di quiete di spazio e di tempo, senza disturbo altrui, quegli attimi ove l’anima ardente dell’uno ode il battere forte del cuore dell’altra, ove le sensazioni crescono e si trasformano in passioni ardenti…  Mai se non per una sera, qualche mese addietro...  Era una creatura leggiadra, assai originale ed elegante negli usi e intelligentissima, dotata d’un grande sense of humor, capace di porre sempre avanti tutto una gran simpatia ed un sorriso simpaticissimo, ed esercitando quindi quel rarissimo dono, di cui così pochi si possono fregiare, del mettere a proprio agio chiunque, persino colui o colei che ad ella si fosse approssimata per motivi di collera.  Alta più che la norma delle altre donne, slanciata nell’angelica figura, dal fisico asciutto e deliziosamente sinuoso e formoso, i suoi capelli castano chiari, sempre tagliati con grande gusto e creatività, facevano da ideale e un poco sbarazzina cornice ad un viso dolcissimo, un soavissimo ovale quasi infantile nei tratti d’immensa grazia, gentile nelle gote e nel mento, rosato da un’epidermide che pareva doversi rompere da un momento all’altro, tanto appariva delicata, quasi bianca come polvere di Luna, e per ciò luminosa, raggiante, sulla quale il minimo rossore emozionale s’evidenziava nettamente: ricordava a Marco quel viso di fanciulla frutto di un misto tra falso candore e languida sensualità che impressionò per sempre sulla tela Jean-Baptiste Greuze nella sua Brocca rotta. Su tal stupendo viso, s’aprivano appunto sorrisi affascinanti, trascinanti, assolutamente coinvolgenti al punto da risultare eccitanti, dipinti tra le sottili linee non troppo carnose ma assai perfette delle labbra, pastellate in una tinta delicatamente purpurea.  Il corpo, bellissimo, sensualissimo, formoso e armonioso, raramente ella mostrava in abiti discinti, ma non certo per un modo trasandato e inelegante di scegliere l’abbigliamento, quanto invece per una sorta d’immensa modestia che la portava a non rendersi troppo conto della sua assoluta soavità ed avvenenza, a differenza di tante che, viceversa, senza avere adeguate qualità estetiche, si mostravano come pavonesse in amore, altezzose e auto-compiacenti, ma in realtà ponendo in luce una ampia coda di difetti e volgari superbie.  Con lei, invece - altra grandissima virtù che possedeva con estrema naturalezza - pur con normalissimi abiti di foggia quotidiana, la bellezza sembrava risplendere continuamente, infinita pur se assolutamente discreta, una sorta di aura d’incanto che la nascondeva e la proteggeva dal cozzare contro le volgarità di tutti i giorni, un delicato alone di soffusa luminosità estetica che in pochi attimi diveniva incontrastabilmente attraente, e fondamentale nello sguardo estasiato di chi aveva in fronte.
S’avvicinava lentamente, con quel passo così lentamente elegante, i movimenti dei gentili piedi quasi studiati per risultare mai oltre le righe, un passo dopo l’altro su un’ideale linea d’altissima armonia dominante l’intero mondo: alzando il viso, riconobbe il giovane amico, e subito s’accese sul roseo e stupendo volto uno di quei meravigliosi sorrisi, ed insieme un’espressione che pareva, almeno agli occhi del suo imminente interlocutore, di grandissima felicità e contentezza per il prossimo incontro, luminosamente gaia, che fece subitamente fremere il di lui cuore.  Marco si fermò a qualche metro dall’ingresso al giardino della propria dimora, e l’ombra posta sulla di lui fronte dall’ampia chioma dei pini del parco lo aiutava a contemplare la sopraggiungente luminosità della figura, e quel bellissimo volto: ancora, improvvisa, come improvvisa appare la calda luce del primo raggio solare che riesce a bucare la spessa coltre di nubi negli immediati momenti successivi allo scatenarsi d’un fortunale primaverile, sentì sorgere dentro, e inondare le membra e il già palpitante cuore, quella particolare attrazione, quella specie d’affetto illimitato, quel super-sentimento che banale sarebbe stato il definirlo mero “innamoramento”, e insieme sentiva i sensi scuotersi violentemente nella considerazione delle immagini di bellezza e grazia che gli occhi mandavano al cuore e alla mente.  L’attendeva giungere con quell’ansia che provava l’antico oracolo sacerdotale nell’attesa della predizione proferita dal grande dio, dal potere soverchiante per la vita in dubbio, come se la sua stessa vita fosse ad una svolta ed entrasse in nuovo mondo di purezza e felicità ch’ella stava per donargli con la sua sola, angelica presenza. Ma nonostante ciò, nonostante le già incontrollabili girandole d’emozioni che ardevano nel profondo della sua anima riscaldando l’intera essenza, non poté fare a meno di notare, in fondo ai meravigliosi occhi di lei, tra quelle sfumature iridee deliziosamente frutto d’una sintesi di toni verdi, blu e ocra a creare pupille streganti, ipnotiche, tremendamente ammalianti, un qualche cosa d’inquietudine, una velatissima tristezza ch’ella pareva sforzarsi di mantenere celata all’occhio comune.  Stranamente, quella anomala sensazione, nel cuore di Marco, aumentava a dismisura la sensualità di lei, ed insieme l’attrazione irresistibile, e una grande volontà di protezione per quella figura troppo soave, bella ed elegante da lasciar che s’inquietasse per un qualcosa, da permettere che un addoloramento potesse ombrare la purissima luce ch’emanava.   Forse qualcosa le opprimeva l’anima, forse la cosa era legata a quel suo rapporto con un uomo piuttosto particolare e strano, in corso da qualche mese, per il quale già tempo fa egli voleva confessarle alcune inquietanti sensazioni che si sentiva dentro, ogni qualvolta che li vedeva insieme, ma che poi non confessò mai, per una sorta di assoluto rispetto e di necessaria riservatezza verso la di lei vita e le relative scelte. Certo quell’uomo, nei primi tempi della loro unione, dava l’impressione di esser forse il tipico amante che molte donne avrebbero desiderato al proprio fianco per l’intera vita, pur senza mostrare un’apprezzabile bellezza ed eleganza, eppure qualcosa in lui mostrava una certa falsità, una fastidiosa e immotivata vanità e ed anche una non troppo velata ipocrisia.  Non molto alto, dal fisico robusto - anche sovrappeso all’apparenza - ed una quasi buffa canizie la quale ancor più poneva in risalto un naso leggermente adunco, pareva in certe visioni e sotto certe luci una di quelle figurette di secondo e terzo piano che spesso si possono ritrovare nell’analisi degli splendidi/inquietanti sogni/incubi posti in pittura con eterna genialità da Hieronymous Bosch. L’aveva conquistata, evidentemente, ma altrettanto evidentemente egli non s’era dimostrato quello che le primeve promesse amorose ritenevano di poter mantenere, oppure ella, comprendendo la probabile, temporanea sbandata passionale che l’aveva portata tra le di lui braccia, ora sentiva tutta l’oppressione d’una scelta affrettata e sconsiderata, pesantemente calata come greve drappo sulla sua sempre attiva volontà di gioia e gaiezza. In alcun caso non vi era gelosia in lui, va detto, tant’è che egli, per quella strana sensazione d’unione che sentiva per lei prima esplicata, le augurava la massima felicità nella vita e con qualsiasi persona al fianco, gioendo nella visione dei suoi sorrisi svelanti una stato fausto, e certamente il suo cuore avrebbe grandemente sofferto al pensiero che ella, per qualche motivo, fosse in sofferenza per una qualche pena.
Si salutarono con grande gioia reciproca, ed entrambi, con spontanea naturalezza, e per quell’attrazione naturale che anima due bocche vicendevolmente appassionate e anelanti l’un alito dell’altra, fecero per avvicinare le labbra e baciarsi in segno d’affettuoso saluto, ma ella, d’improvviso, si trasse indietro.
“Scusami, è meglio non farlo... Sai, la gente...” e fece cadere nel vuoto quel suo tentativo di giustifica, il tono di voce rotto da una evidentissima emozione, palesata anche dall’istantaneo rossore apparso sulle graziosissime gote, gli occhi d’improvviso quasi inumiditi da un velato accenno di tristi lacrime, ma un attimo dopo già nuovamente sorridenti. Marco accolse tuttavia con naturalezza quel suo particolare comportamento, anche per non porla in un sconsiderato imbarazzo, data la gioia del momento, e la invitò a raccontarsi un poco a lui, sedendosi entrambi sul basso muretto che delimitava la strada in fronte alla sua dimora, ove con il bel tempo e senza foschia, si poteva godere di una vista stupenda sulla bassa valle, sulla vasta pianura e sulla frastagliata linea delle montagne poste al di là. Ma quelle brevi parole, pronunciate con quella voce giusto a metà tra il tono del folle ardore passionale e quello dell’eterna felicità e leggerezza d’animo, così suadente e avviluppante, così leggera ed insieme eccitante, e pur se di diniego, bastarono ad accendere ancor più nel cuore del giovane amico il fuoco dell’attrazione passionale verso di lei, così come le secche braci di buona legna ravvivano rapidamente le fiammelle che altrimenti velocemente si spegnerebbero nel camino, estinguendo il vitale calore del fuoco.  Ma genuino fuoco di passioni ardeva in lui, e già parevagli che quel rifiuto rappresentasse in realtà un assenso, un invito solo rimandato a che fosse prestissimo la vittoria dei sensi, e la breve frase, unitamente alla voce che la pronunciava e all’espressione dolce e delicata del volto di lei, erano già meraviglioso e indelebile ricordo per sempre immagazzinato nella sua mente.
Nel mentre che si sedevano, egli faticava a staccare lo sguardo da Federica, dalla sua immane eleganza e grazia, dalla sua delicatissima bellezza, eppure ancora sentiva in qualche modo il freno del rispetto per una sì gentile creatura e per la sua attuale, contrastata scelta affettiva - freno che d’altronde sempre era e con chiunque nel suo animo, improntato ai nobili virtuosismi dell’educazione, della raffinata gentilezza e del discreto garbo, valori così all’apparenza dimenticati dai moderni uomini...  Ma la passione cresceva in lui, e nobilmente filtrata dai valori di cui sopra, così ben impressi nel suo modus vivendi, affiorava sulla superficie del cuore lentamente ma inesorabilmente, con soave ma decisa forza, spingendo spiritualmente le sue membra verso quelle delicate e aggraziate di lei, ed il cuore colmo di ardore verso il suo, a riempirlo parimenti dello stesso infinito ardore. Ella lo guardava quasi fissamente, mentre raccontava con ragionata lentezza, e con quel tono vocale sì meraviglioso scaturente dall’eterno sorriso, incitata dal di lui appassionato e interessato sguardo. E come se le reciproche menti fossero già in contatto, e in dialogo fluente e intenso da sempre d’infiniti discorsi di genuina passione, per un magico incantesimo quale è quello che, nella pur sua semplicità e microscopicità, può smuovere montagne intere, e far accadere ciò che si riterrebbe impossibile che accada, nelle scambiate parole, nello stesso preciso istante, entrambi ricordarono quella sera di qualche tempo fa, quell’unico momento nel quale essi furono in qualche modo uniti, soli senza disturbo, quel frangente ultimo prima ch’ella s’imbarcasse nella storia con lo strano e ambiguo uomo: di botto, la di lui mente, a guisa di stella cometa che, avvicinandosi al Sole si faccia attrarre e poi, per effetto della forza gravitazionale, si faccia spingere nello spazio, si fece spingere da lei, dalla sua estatica presenza nel grande spazio dei ricordi, a quella sera di fine dicembre, giusto qualche mese fa...
 

III.

“Ti ricordi?”
“Oh, sì, mi sono divertita tantissimo, quella sera...”.
“Già, anch’io, e ricordo benissimo quanto eri splendidamente elegante, e affascinante, tanto che un poco mi vantavo di poter passeggiare per le vie in tua compagnia, con una creatura così bella e aggraziata.”
Sorrideva, ella, e il volto gentile baluginava di quella purissima luce che sa donare la gioia interiore, con leggerissime sfumature rossastre segno d’un gioioso e discreto crescere dell’emozione sulle gote: “Esagerato, sei troppo adulante, non merito così tanti onori!”
“No, permettimi, li meritavi, anzi, meritavi mille volte più lusinghe, come ora d’altronde...”.
Ancora lei sorrideva, e il suo soave sguardo aveva preso a guardare fissamente quello del giovane amico, senza mai distogliersi, mentre la prima fresca brezza discendente dalle alte montagne cominciava ad annunciare l’approssimarsi della sera, e il quotidiano addio del grande Sole, nello sfarzo imponente e magnifico dell’infuocato desio.  Pareva, l’imminente spettacolo solare, nella girandola d’incendiati toni rossi e gialli che s’accingevano a far divampare del più bel fuoco l’intero orizzonte, l’immagine esteriorizzata dell’anima di Marco Alberici, nella quale parimenti girandole di passione, mosse dall’impetuoso incalzare dei sensi eccitati, davano immenso calore a tutto il corpo, ponendolo in accesa ed ebbra vibrazione, e stimolavano assai la mente all’abbandonarsi completamente nel vortice delle emozioni.
Così, l’immagine suadente e bellissima di lei, seduta sul muretto a pochi centimetri dal cuore e dalla mente di lui, si sovrapponeva a quella del ricordo vivissimo di lei in quella sera, altrettanto bellissima e affascinante, e l’analisi di entrambe le visioni raddoppiava l’emozione e la passione: sembrava che, nella fredda brezza di quel giorno sì prossimo alla fine d’anno, nella città semivuota e con i pochi in strada intirizziti dal gelo, la divina Afrodite avesse concesso le supreme grazie della bellezza e dell’eleganza infinita a lei e solo a lei, Federica Serassi, tralasciando chiunque altro: i dolci e lucenti capelli, solo un poco più lunghi di quanto non li avesse al presente, docilmente si muovevano nelle carezze del leggero venticello, e davano la meravigliosa sensazione che il suo viso, e le dolcissime espressioni che da esso scaturivano, fossero ancora più aggraziate e gentili del solito, e più ancora affascinanti e attraenti. In più, lo stupendo ovale era leggermente impreziosito da un tenue maquillage, composto da toni chiari ed esaltanti la luminosità naturale del viso e degli occhi. Il collo veniva circondato dall’alto bavero della giacca in doppio petto di lana damascata color sabbia bagnata, ma pure lasciava intravedere la soavissima ed elegantissima attaccatura della sua base alle spalle e di lì agli omeri, nel trionfo di un’epidermide dalla purezza incredibile, soffice, che mai miglior e preziosissimo tessuto avrebbe potuto anche solo contrastare in morbida soavità; solo un finissimo girocollo in oro giallo cingeva la meravigliosa gola, dalla quale la suadente e sempre allegra voce inondava l’udito del giovane amico di parole di gaiezza e felicità, in quel solito tono vocale ne troppo alto e ne troppo basso, mai urlato ed anzi quasi sussurrato, semplicemente stupendo e ideale per colui che volesse udire delle dolcissime parole di passione appena brusite nelle orecchie.
E il corpo, quale meraviglia!... Oh, come avrebbe voluto cingere quelle delicate ed insieme sinuose membra, come avrebbe voluto riscaldarle con un abbraccio ardente e appassionato fin dal primo istante in cui s’incontrarono e iniziarono quella serata insieme...  La splendida giacca, pur nello spesso tessuto che efficacemente riparava dal pungente freddo, fasciava il busto e ne esaltava i lineamenti, il seno voluttuoso, la vita assai stretta e i fianchi formosi, le terga meravigliosamente sporgenti dalla gentilissima linea della schiena, le cosce fasciate in attillati pantaloni di raso d’un blu profondo ed anche le gambe intere, perfette, armoniose, disegnate da tratti emozionanti e da proporzioni assolutamente artistiche; infine le eleganti scarpe dal tacco alto ma non troppo, che disegnavano sulla fredda e cruda terra l’armonica linea della sua elegante camminata, dei suoi movimenti estatici, delle movenze frutto della più alta scienza estetica dettata da regole mai scritte e semmai innate in chi ha la fortuna di detenerle nel proprio essere, come preziosissima virtù.   Le mani, quando non coperte da raffinati guanti in seta nera con un bordino al polso di delicati merletti in rilievo, mostravano tutta la leggiadria del loro essere perfettissimi strumenti d’attrazione fatale, con i quali il tatto diveniva arte, la leggera pressione dei delicati polpastrelli il tocco magico della dea anadiomene protettrice di sì tal meravigliosa creatura, le dita soavi, fini, meravigliose, le unghie leggiadre e attraenti.
Camminavano insieme, i corpi vicinissimi, tanto che il reciproco calore pareva proteggerli dal gelo dell’aria, nell’invidia di chi, infreddolito oltre ogni dire, passava e li rimirava sì gaudiosi, immensamente felici della vicendevole compagnia. Alternavano momenti di calma e di colloquio pacato e riflessivo, ad altri d’esplosione di gioia e ilarità quasi infantili, e scherzi e giochi d’ogni tipo.
“Ricordi quando volesti andare a quel chioschetto a comprare della liquirizia?”
“Sì, ci scambiarono prima per fratelli, poi, alle nostre risa, per felicissimi innamorati!”
“Ah, sì, e quell’anziano barista, che faccia fece di fronte al nostro continuato riso, tant’è che alla fine contagiammo anche lui di quella nostra felicità!”
“Sì, sì, e poi ci mettemmo a rincorrerci per la via quasi del tutto deserta, e che facce facevano i pochi passanti che ci osservavano come fossimo degli indemoniati, o dei bambinetti sfuggiti al controllo di severe madri, incuranti del freddo e ilari più di giovani scolari alla fine della scuola!”.
I ricordi fluivano in entrambi con l’impeto d’una cascatella del torrente lassù nella valletta, quando le nevi prendono a sciogliersi e ne ingrossano via via sempre più il corso di zampillante e irrefrenabile acqua. Marco continuava a osservare quasi fissamente la bellissima amica e interlocutrice, tanto da parergli, da un momento all’altro, di poter cadere nella passionale profondità delle di lei stupende iridi, in un abisso di passione che l’anima voleva non potesse aver mai fondo, sì da eternamente precipitarci. Le immagini scorrevano in mente fluide come non mai, e vivissime: quando i corpi ancor più si unirono, ed egli la prese sottobraccio, e il calore che ella emanava inondò quasi con violenza il suo cuore, ponendolo in eccitata vibrazione convulsa più che una corda di violoncello nelle note più estreme del pentagramma; le voci che si facevano più sussurrate, più accalorate, sempre più pronuncianti parole di desiderio, gli sguardi che ormai quasi fissi miravano con passione l’un l’altro, la perfetta e quasi incredibile armonia che regnava sui loro discorsi, e quell’atmosfera di purissima e sincera felicità che riempiva entrambi i cuori ed ambedue le anime...  Poi egli la invitò in un elegante locale che dava, con le sue insegne e le vetrine in art-decò soffusamente illuminate, sulla piazza principale della città, proprio nell’attimo che pareva cadere dal plumbeo cielo, come sua gelata ed emozionale lacrima, timidissima ed evanescente, qualche fiocco di neve di consistenza eterea; trovarono un tavolo libero in una delle salette più appartate, nella quale facevano bella mostra di sé le stampe di alcuni dei più celebri quadri di Toulose-Lautrec, mentre alcune porcellane di finissima manifattura di Capodimonte, del XVIII secolo, brillavano tenuemente su mobiletti in stile Liberty; debolmente, ma chiaramente, giungeva il dolce suono del piano intonante alcune delle più celebri suonate per pianoforte di Lizst, e nella saletta aleggiava profumatissimo un delicato aroma di tè, tenue sì ma altrettanto forte e corposo, che penetrava profondamente nelle nari dei due appassionati, con l’effetto di inebriare ancor più i cuori e le anime, nel continuo superamento d’ogni limite d’ebbrezza che chiunque possa mai provare.  Ella si tolse l’elegante giacca, con un movimento tanto lento e meditato quanto sensualissimo ed eccitante, che mai nessuna modella su alcuna passerella d’alta moda avrebbe potuto solo avvicinare in grazia e leggiadria: tal dono di amabile armonia motoria scoprì il leggero jersey ch’ella sotto aveva, nero e dalle maniche lunghe ben oltre i polsi, secondo la moda del tempo; il bordato inferiore, invece, cingeva dolcemente ma decisamente l’esile vita, cadendo sui fianchi prosperosi con una leggera damascatura in finto raso che pareva la più preziosa cintura cingente il corpo d’una favolosa regina da mille e una notte.  Ma ancor più quel finissimo jersey onorava il di lei meraviglioso busto con una ben profonda scollatura a V, in un gioco di luce ed ombra nel quale la luminosità era data dal fine girocollo dorato che brillava tenuemente alle fioche luci della saletta, mentre affascinante ed eccitante ombra era quella che si generava dallo scuro ambito carnale tra le rotondità perfette dei due seni, formosi quel tanto che bastava da confondere fortemente la mente del giovane estasiato, da generare possenti nella mente mille e mille immagini di voluttà indefinibile quasi nella sua prorompenza, e perfino soavemente soggiogante.   In quell’atmosfera d’idillio passionale, nella gioia che ammantava come aura preziosa e inscalfibile i due giovani, nelle dolci parole scambiate, tra gli sguardi pieni di passione e di tenerezza, le mani si sfioravano, si toccavano, si cercavano, le punte delle dita si tastavano, i polpastrelli premevano l’un l’altro, in una sorta di gioco dietro alla cui leggerezza si celava immensa passione e sensualità oramai non più controllabile, esondante come impetuoso fiume in piena, finché le dita s’incrociarono, s’unirono, come già era per i cuori e le anime, e gli occhi si fissarono gli uni negli altri, più senz’alcuna divagazione. In quell’incrocio anelato di mani e d’anime, in quel profondissimo sguardo ed entro quelle iridi meravigliose, più che divine, egli sentì aprirsi dentro mille universi di passione, si sentì nuovamente quasi cadere in un abisso nel quale l’anima e il cuore vagavano liberi, un abisso senza fondo e dalle pareti morbidissime quanto è morbido un giaciglio ove le membra affondino nel momento dell’idillio dei sensi; e ogni parte di lui era tanto felice da giungere a uno stato di stordimento, un iperspazio nel quale ogni luminosa stella aveva gli angelici tratti di lei, ogni nebulosa pareva assumere la di lei figura, ogni galassia risultava immagine cosmica dei suoi favolosi occhi...  In fondo, poi, la sua stella oscurava d’immenso baluginare qualsiasi altra, era una sorta di spazio mono-stellare, una dimensione immateriale ove tutto era lei, tutto orbitava attorno a lei, tutto viveva grazie a lei, tutto era perché lei era.  Marco provava uno stato d’ebbrezza emozionale e d’impeto passionale che non ricordava d’aver mai avuto, così intenso e ardente: gli pareva, in quei momenti, che il mondo non potesse esistere senza di lei, sembrava che quel luogo, quella città, la terra che calpestavano insieme, tutto insomma potesse esistere solo perché Federica esisteva; e gioiva, in cuor suo, al pensiero che gli altri pochi avventori presenti nella saletta guardassero a loro come ad una coppia innamorata e felicissima, e sentiva l’eccitazione crescergli dentro per questa unione con lei che l’altrui visione e pensiero avevano già sancito.  Non parlarono, per attimi o forse per minuti interi, giacché erano i sensi a parlare, a colloquiare animatamente di discorsi romantici e ardenti, infuocati quasi, come mai le parole potrebbero essere, e parimenti ebbri dialoghi passionali fluivano nel contatto tra le mani, nell’incrocio delle dita, dolcemente avviluppati nel calore che vicendevolmente si scambiavano.  Egli sentiva quasi gli occhi impazzire, incapaci di reggere ad una tale immagine di bellezza e di soavità, ad una figura così celestiale ed insieme terribilmente eccitante: ogni di lei dolce respiro, che quasi impercettibilmente faceva gonfiare il busto ed i seni, aveva l’effetto di una tempesta di violentissima emozione, e di tali turbini impetuosi e voluttuosi ve n’erano uno dopo l’altro, ad ogni secondo.  In atto, in quella saletta, v’era il massimo trionfo dei sensi, v’era l’animarsi incontrollabile e stordente della più alta emozionalità immaginabile, mesciata con l’ardore più intenso e avvoltolante, e il dolce e soffuso melodiare del pianoforte faceva da giusta colonna sonora a quell’egloga romantica; infine, quel tavolinetto in stile liberty come l’intero arredamento del locale, e la tenue luce che illuminava quell’angolo, e le tazze in fine porcellana francese che ancora olezzavano d’aromi fragranti, e forse il mondo intero, e l’intero Universo, fecero da spettatori estasiati al dolcissimo incontro delle labbra, ad un bacio leggerissimo ma focosamente appassionato, lunghissimo, nel quale le carnose linee rosse che incorniciavano le ardenti bocche si fusero in un’apoteosi di fuoco lussurioso, languido e inebriante; un bacio che parve non finire mai, quasi che le labbra l’anelassero tanto da non riuscir più ora a staccarsi; un bacio che, nella sua semplice ed insieme potentissima essenza, conteneva tutti i più sensuali e passionali discorsi d’amore, tutta l’eccitata volontà dei sensi di fondersi, tutto l’ardore che l’intera umanità mai avrebbe eguagliato in intensità, pur se presa nella sua completezza, e tutta la forza d’un legame che già era in essere, nei due giovani, da chissà quanto tempo, quasi che, in altre precedenti vite, essi fossero stati focosissimi amanti e quella sera non fosse che un magico deja-vu verso le passate ebbrezze.
Fuori, il cielo aveva lasciato il precedente plumbeo abito, e cadenti sulla gelata terra non v’erano più bianchi fiocchi di neve ma luminosi e soffusi raggi di stelle splendenti, che quasi per incanto erano riapparse a nobilitare la volta celeste, pur nel freddo della notte dicembrina, e parevano salutare con il loro sorriso di baluginante gioia l’idillio dei due giovani; ed essi, parimenti, parevano stelle tra le stelle, illuminati dall’ardore e dalla passione, due figure unite nello scambio di calore carnale, nel turbinio della gelida brezza che aveva preso a spazzare le strade...
 

IV.

La stessa brezza, meno movimentata e più tiepida, soffiava con leggerezza sui due giovani, seduti sul muretto che dava sulla valle, proprio nel mentre che era in scena il grande e impetuoso spettacolo del quotidiano desio solare: il cielo infuocato di incredibili tinte faceva da maestoso contraltare all’invece delicato e fresco venticello che smuoveva all’unisono i capelli dei due, quelli castani, bellissimi e lucenti di lei, leggiadramente arcuati in morbide volute che s’accostavano alle guance colorite, e le bionde ciocche corte di lui, in una sorta di danza d’accordo e di consenso totale. Prese entrambi dall’emozione intensa del ricordo, le due menti avevano fatto sì che, come quella meravigliosa sera, le mani s’avvicinassero, si sfiorassero, e ora quella di lui s’appoggiava quasi con estrema tenerezza su quella bianca, dolcissima e gentile di lei, nobilitata ancor più da una vera che imitava nel disegno e nel gioco di luce dei piccoli diamantini un anello di gusto medievale, quasi d’inizio del XII secolo, elegante e raffinato.
“Fu veramente una sera speciale, quella, perché tu eri speciale, più che speciale, straordinaria...”
Di nuovo, alle parole di Marco, una evidente vampa d’emozione colorò d’un rosso leggero le bellissime gote di Federica, che parlò con la voce delicatamente rotta dalla passione:
“No, tu fosti speciale, quella sera. Mi sentii come mai m’ero sentita, mi sembrava d’essere una principessa, onorata e riverita dal suo principe azzurro... Nessuno mai m’aveva trattato con così tanta gentilezza, e garbo, e... Amore...”. Ancor più, la sua voce si fece bassa e rotta nel pronunciare quell’ultima parola.
“Ah, ma quale principe, che neanche ero vestito d’azzurro!...”.
La battuta di lui fece ricomparire sull’angelico volto uno di quei sorrisi meravigliosi, attraenti, simbolo purissimo della più pura e genuina felicità, e gli occhi nuovamente parvero illuminarsi di gioia, come lustrissimi specchi di un’anima veramente speciale, unica nelle sue virtù.  D’improvviso, fluenti parole di passione sgorgarono dal cuore pulsante di infinita sensualità, e non più le labbra poterono controllare un tal effluvio dirompente d’ardore vero e sincero; egli le sentì prorompere con forza, e ne fece ad ella prezioso dono:
“Pensa... Se quella sera avessimo lasciato libere di correre le nostre emozioni sull’ampia strada della passione, come volevano, ora potevamo essere un meravigliosa coppia, un trionfo d’amore e di tenerezze... Tu saresti stata la mia meravigliosa rosa, vellutata nei petali come vellutata graziosamente è la tua pelle, e io t’avrei curato più che il miglior giardiniere... I miei baci sarebbero stati il liquido fondamentale da suggere per la tua vita, la linfa indispensabile, che mai ti sarebbe mancata, mai ti sarebbe mancato nulla, e viceversa che la rosa che prima o poi appassisce, mai la nostra unione sarebbe decaduta, e sempre tu saresti stata la luce dei miei occhi... Saresti la mia vita, saresti la mia poesia, e come tu di me, io vivrei di te... Mai il Sole tramonterebbe su di noi, e noi insieme saremmo stati il Sole di tutto l’Universo... Mio amore...”.  Prorompeva la passione, immensa, potente, ardente più di mille fuochi; sentiva di sfogarsi quasi, Marco Alberici, da sentimenti che da tanto tempo fluttuavano in sospensione nel cuore, senza trovare mai la forza d’estrinsecarsi. Federica lo guardava, con sul volto un’espressione che sembrava veramente a metà tra la gioia immensa e incontenibile e l’altrettanto incontenibile e grave tristezza, le labbra leggermente torte come quando debbano dimostrare la felicità nel corso d’un pianto di gioia. Restò un poco in silenzio, quasi a voler comprendere appieno il significato delle appassionate parole da lui proferite, e goderne, e cibarsene nell’anima e nel cuore, suggerne il significato focoso e profondo, per poi usarne l’intrinseca forza ed energia per vivere più gioiosamente; poi disse:
“Anch’io, penso... Mi rendo conto che spesso ti penso, anzi sempre, ti cerco tra la gente, nelle vie, nei momenti in cui ritengo che tu possa essere fuori casa... E quando ti vedo, il mio cuore accelera a dismisura i battiti, e mi pare d’impazzire... Per questo quasi ti sfuggo, e quando ci troviamo di fronte mi sento in subbuglio, e... E non riesco ad abbandonarmi, forse, o per fortuna, altrimenti le tue braccia accoglierebbero l’impeto del mio corpo eccitato e ardente... Sempre... Per sempre...”.
Egli la guardò, gli occhi fusi definitivamente in quelli di lei.
“Per questo, anche prima, forse stava per uscire ad entrambi l’impeto d’un bacio, e tu...”
“Si, no...”. Guardò un attimo in basso, poi rifissò le pupille di lui, e sorrise, un sorriso d’una dolcezza che mai il giovane aveva rimirato.
La sera, inesorabile, stava per ammantare con il suo scuro mantello di tenebra il paesaggio: il forte rintocco delle campane, che annunciavano le ore sette, quasi risvegliò dal torpore della passione, dall’idillio infinito, dalla quiete esteriore dell’interiore tempesta sensuale, i due giovani.  Gli ultimi barlumi tenui dei raggi del Sole, oramai quasi completamente sceso oltre la lontana linea delle colline che degradano verso la pianura, conferivano al di lei bellissimo viso una tonalità soffusa e intrigante, una bronzatura tenue, uniforme e meravigliosa che pareva aumentare ancor di più la luminosità naturale dei tratti, ricordando, pur nella sua maggiore chiarezza, la gentile fattura bronzea dell’Opi di Bartolomeo Ammannati. Federica doveva andare, era già in ritardo, essendo attesa a casa per almeno mezz’ora prima, temeva di far pensare male qualcuno.
“Oh... E’ così tardi... Purtroppo...”. La voce era rotta, ancora, più di prima, da infinita emozione. Ella fece per alzarsi, entrambi fecero per alzarsi, ma, contemporaneamente, entrambi ebbero un moto improvviso per far sì che l’altro non s’alzasse, per trattenerlo accanto, per non farlo andare via, forse, magari per sempre. E come per l’azionarsi di un meccanismo naturale, spontaneo, già scritto nel firmamento dei destini di tutte le creature viventi, come una legge dei sensi incontrovertibile, come è destino e legge che la neve cada e poi si sciolga, come è destino e legge che l’acqua scorra verso il basso e non viceversa, come è destino che due cuori che battono l’un per l’altro prima o poi battano all’unisono, si risedettero sul muretto quasi abbandonando nella mollezza del piacere le membra, e si baciarono appassionatamente, un bacio breve nel computo del tempo ma lunghissimo nello spiraleggiare tra i sensi in ebbrezza, quasi sfuggente nella delicatezza ma talmente ardente di ogni più impensabile e stordente passione...
Poi ella s’alzo, definitivamente.  Guardò lui negli occhi con uno sguardo assolutamente penetrante, e disse:
“Forse, un giorno... Non lontano...”.
“Sì, un giorno, forse vicino...” rispose lui.  Salutò con voce quasi stridula, e nuovamente un ampio e stupendo sorriso illuminò l’estasiante volto, cinto da un’espressione ancora duplice, un misto tra la più irrefrenabile gioia passionale e la tristezza più pesante e insopportabile. Il giovane appassionato ricambiò con voce soffusa, poi ella se ne partì inizialmente con passo spedito e comunque elegantissimo, poi con meno fretta, voltandosi spesso indietro e ogni volta sorridendo e salutando con un ampio gesto della mano. Lui s’avvicinò al cancello d’ingresso al proprio giardino, e continuò ad osservarla nell’allontanarsi, sentendo quello stato particolare che la mente prova nell’immediato attimo precedente il mattutino risveglio, quando il sogno prende a svanire, leggermente ma decisamente, le sue immagini soffuse s’adombrano inesorabilmente, e la coscienza se ne esce dalla dimensione onirica dolcemente, senza possibilità di guardare indietro se non attraverso il ricordo. 
Era evidente come quella meravigliosa creatura fosse combattuta tra due sentimenti fortissimi, divoranti l’un l’altro, ovvero l’uno, lui, Marco Alberici, dietro una finora semplice amicizia la passione più focosa e ardente, l’abbandonarsi al lascivo volere dei sensi, il lasciarsi avvinghiare dalla voluttuosità più libera ed emozionante, dal godimento più profondo, e dalla reale volontà sentimentale che sentiva dentro, il tutto contrapposto violentemente all’altro, al rispetto di un dovere, di un impegno con un’altra persona, alla sua correttezza e lealtà, simbolo di una grandissima bellezza anche interiore, di una ammirevole soavità estetica dell’anima, che la portava a sopportare un’unione probabilmente non voluta profondamente, e forse ora anche fortemente dolorosa.
Nuovamente, nel mentre che ella s’allontanava verso la sua casa, sita nelle parti più alte del villaggio, egli notò la sua estatica bellezza, la sua grazia infinita, la nobile eleganza, la luce che emanava e che illuminava il paesaggio attorno, pur nella quasi oscurità totale del momento. “Carpe diem” si ripeteva continuamente nella mente... Avrebbe voluto corrergli incontro, abbracciarla, consentirle di sfogarsi, di trovare un appiglio per concludere quella storta storia in corso ed essere così libera di abbandonarsi al suo ardore, e riabbracciarla, e ribaciarla infinite volte, eccitarla e sconvolgerla d’energia concupiscente...  Ma non lo fece.  Anch’egli, in cuor suo, aveva in corso una battaglia devastante, tra mille sensazioni diverse, e mille passioni e sentimenti: parve vincere la parte più discreta, più riflessiva, più sobria, quella dei sensi più elevati, lontani da ogni materialità, purissimi i brillanti in una dimensione di sola luce evanescente.
Chissà... Forse era meglio così... Forse fu meglio così anche quella sera, fu cosa migliore che dopo un tale idillio emozionante ed eccitante, dopo una sì breve unione perfetta e ideale, entrambi se ne tornarono per le proprie strade, nelle proprie case, senza un seguito amoroso e passionale, come anche in quell’ultimo incontro. Un perfetto amore platonico, scevro da difetti perché da essi per sua natura inscalfibile, lontano ma ugualmente appassionato e tremendamente intenso, mai intaccato da incomprensioni, o litigi, o baruffe, mai esaurito ed anzi, per quella lontananza, sempre attivo e ardente, come è assai più piacevole il ritornare in un luogo carico di ricordi e dal quale da tanto tempo si manca, piuttosto che in un altro ove quotidianamente, per qualche motivo, si sosta, si agisce, si vive, si genera la noia e la stanchezza e il tedio...  Una unione passionale e focosissima, ma in dimensioni diverse da quella reale, sospesa nel sottile infinito dei pensieri e delle fantasie come un eterno, delizioso sogno, ogni volta riapparente vivido ad una nuova visione di lei, bellissima e splendente come una figura onirica e solo in tal mondo veramente, profondamente e completamente possedibile...  Era possibile l’unione tra il sogno alla realtà? Si potevano fondere e mescere passioni sì idealmente alte con quelle inevitabilmente inquinabili dal gretto e basso presente? Forse, forse...
Forse, se quella sera i due giovani avessero voluto dare un seguito a quella passione, se avessero voluto lasciarsi travolgere dall’impeto dei sensi, generando un’unione d’affetto e d’amore, per quelle imprevedibili vie che la vita prende senza che spesso la mente ne abbia avvisaglia, ora tutto poteva essere già finito, magari in malo modo, con alterchi spiacevoli e dolorosi, con l’impeto violento d’una passione ormai consumata, come è, a volte, appunto per le passioni più incontrollabili, più violente e infuocate, che tosto sono come le rose prima dette, bellissime e affascinanti, voluttuose e splendenti, ma poi così velocemente appassiscono, sfioriscono, perdono la vividità del colore, fino alla definitiva morte...  L’immagine di lei, viceversa, era sempre fulgida e netta nel cuore, mai velata o confusa, ed ogni sua visione aumentava il battito cardiaco a dismisura, sempre, ugualmente ogni volta come in quella sera di fine dicembre, nell’eternale incendio della passione.
Che questo fosse il vero amore, l’amore non consumato, quello non succhiato fino al suo midollo di passione?  Che questo fosse la vera apoteosi dei sensi, bellissima perché virtuale, e quindi sempre aperta a mille nuove diverse sfumature emozionali? Che questa fosse la vera estasi d’amore, sempre impalpabile, sempre più fantastica che reale, più onirica che concreta, più magica che scientifica?
Marco Alberici aprì il cancellino di casa, che leggermente cigolò. La gentile dimora era già quasi del tutto celata dall’oscurità, aumentata essa dall’ombra dei grandi e maestosi alberi intorno, silenziosi custodi naturali del suo piccolo mondo: dovevano essere quasi le otto. Il cielo pareva in luminosissima festa, lindo e brillante come non mai per quel particolare stato che offre la Primavera, grazie a cui l’assenza della velante e alabastrina Via Lattea, bassa sull’orizzonte, consente la visione delle zone di spazio interstellare più trasparenti, ove la galassia è più sottile.  Il grande carro degli dei, l’Orsa Maggiore ovvero la ninfa Callisto tramutata in animale dalla gelosia d’Artemide per il figlio Arcade, avuto da Zeus, già riluceva e illuminava tutta la volta celeste; ad occhio nudo, nelle zone d’ombra, si potevano osservare i suoi grandi e meravigliosi gioielli: Phekda, Merak, Mizar la doppia con la gemella Alcor e tutte le altre; e poi brillavano il Leone, la belva di Nemea, figlia di Echidna e uccisa da Ercole, con Denebola e Regolo, il “piccolo re”; la grande chioma della regina Berenice, ch’ella stessa volle donare agli dei, sì magnificata dalla miriade di scintillanti ammassi galattici; la Vergine, ovvero Cerere dea delle messi, con nella mano la sua bellissima Spica, e il Granchio compiacente, che trattenne la dolce ninfa fino al sopraggiungere di Giove, e ancora i Cani da Caccia, Chara e Asterione, tenuti al guinzaglio da Boote...  La profondissima e penetrante luce di tutte quelle stelle meravigliose si rifletteva tenuemente sulle alte cime montuose, ove l’ultima neve, sui pendii dove non c’erano ghiacciai a mantenerla eternamente, si conservava a fatica, già stretta dalla ormai giornaliera morsa del primo caldo pomeridiano, quasi però, lì restante, a voler ricordare l’inesorabilità del cammino del tempo, e che dopo una fiorente Primavera, una afosa Estate, un colorato Autunno, tornava il gelido Inverno, e la ruota riprendeva il suo giro, il corso irrefrenabile ed eterno verso l’infinito...
V’era un profondo silenzio diffuso; la città pareva già assopita.
“Oh, stelle, languide stelle, voi che siete del mantello celeste meravigliose gioie, sapete conoscere la trista gioia che anima il mio cuore?”.
Così pensò, tra sé, il giovane Marco Alberici, nel mentre che gettò l’ultimo sguardo al maestoso cielo, e chiuse la porta di casa.
 
 

(Calolziocorte, 02 Agosto 2000)
 

 

TORNA ALL'INDICE