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L'Istante
 
 
 

Lentamente, il villaggio s’animava. La vita seguiva la soave cadenza dei ritmi che ancora la Natura aveva facoltà di dettare, armonicamente acquisendo energia quasi che essa venisse elargita dal costante, regolare accrescersi della luce diurna. Ancora il Sole non s’alzava tanto da spuntare oltre le alte pareti dei monti che cingevano la tranquilla conca, eppur la sua aurea potenza pareva provenire dall’ovunque, sfumando soltanto presso lo zenit in un dolcissimo e tenue tono ceruleo, in modo da spandere per i tetti delle case e la vegetazione rigogliosa un brillio d’incanto, una luminosità soffusissima e parimenti vigorosa in un modo quasi sovrannaturale, dotata come d’una forza diffusa mitissima e insieme veemente. Tutto l’intorno s’imperlava dello sfavillio della rugiada, che tremolava la sua evanescente tenuità su ogni essere vegetale donandogli quasi vita, un leggerissimo brivido di palpabile vitalità come se la Natura approfittasse dell’assenza d’ogni attività umana per rivelarsi magicamente nella sua reale e più celata essenza. L’assenza d’ogni rumore e d’ogni suono quotidiano esaltava quelle sonorità naturali che nel diurno vivere l’uomo passa per insignificanti taciturnità, senza riporre generalmente in esse quel gusto uditorio che ne avrebbe evidenziato tutta la preziosa, primeva bellezza; semmai, in quei gentili e delicati suoni regalati dal frusciare del vento tra le fronde verdissime e brillanti, dallo zampillante sciacquio dei mille torrenti discendenti dai crinali montani, dai cinguettii degli abitatori pennuti di quelle ramature e, più in alto, nella luminescenza celeste, dai lontani richiami dei regali rapaci maestosamente plananti quasi a reclamare una aerea sovranità sull’intero paesaggio, semmai si mescevano i primi vaghi rumori umani, ed i primi olezzi che ad essi si accompagnavano, segnali inequivocabili che un nuovo giorno era al principio, e che già qualcuno attendeva alle proprie laboriosità giornaliere: il caldo e fragrante odore delle sfornate del pane che veniva dal forno su in cima al paese, o quello più pungente del caffè, esalato dai pochi locali sparsi tra le viuzze silenziose, dai quali se ne entravano e uscivano silenziosamente i più mattinieri commercianti che scendevano nella bassa valle ai mercati maggiormente rinomati, con l’espressione accigliata, intenta già nei pensieri quotidiani, forse ancora intorpiditi dalle beffarde spire di Morfeo… I loro mezzi biancheggiavano tra le ombre ancora allungate delle chiome che circondavano le poche case del villaggio, unica coeva presenza in un piccolo mondo che pareva eternato infinitamente nella sospensione d’un attimo immune al transito temporale d’ogni singolo secondo, in una sorta di era indefinita, variante solamente per via dell’evoluente presenza umana e dalle sue attività. Eppure, in quell’istante unico e dilatato all’infinito di una dimensione temporale che ad ogni nuova epifania diurna pareva generarsi dal nulla per poi nel nulla svanire, come vinta dall’irrefrenabile, invincibile moto universale, nemmeno l’uomo, la sua grandezza, la sua dominanza incontrastata sapevano vincere l’aura magica di sospensione indefinita, di meravigliosa vaghezza che la Natura tutta e il cielo luminoso ma privo ancora dell’eliaca presenza spargevano sulle poche case del villaggio, lucide sui tetti, gioiose nelle diffuse e vivaci decorazioni delle pareti, calde nelle loro perlinature e nel tono delle travi d’abete che dai profili delle coperture sporgevano spesso con decorazioni in rame raffiguranti teste di drago, rostri di rapaci o quant’altro le innumerevoli leggende che sopravvivevano al tempo in quelle valli montagnose regalavano alla fantasia popolare e all’abilità di artistiche mani artigiane.
Tutto era magia, e magica sospensione. Ogni minima ombra che l’occhio umano avesse intravisto nel fitto fogliame delle rigogliose foreste che giungevano a lambire i piccoli e ordinati giardini delle case poteva essere segno della presenza d’ogni cosa e di nulla: uno spiro di vento intrufolatosi tra i rami e donante ad essi un insolita, fremente, oscillazione; un uccello timorato dalla vicinanza così prossima dell’uomo eppur curioso d’osservare l’ingombrante vicino tra le vie serpeggianti attraverso le case; o ancora chissà cosa, un essere elementale, uno spirito della Natura di cui sempre quelle stesse leggende tanto care ai valligiani segnalavano la presenza, amica o nemica, malefica e pericolosa oppure benigna, protettrice, benefattrice… D’altronde, in quell’istante di incantevole vaghezza ove ogni cosa pareva finalmente armonizzarsi con tutto il creato d’intorno, la fantasia pur sfrenata poteva ben dominare ogni pensiero, ed imporre utopie e chimere altrimenti ritenute come meri scampoli di fantasticherie infantili…
Per quello, quando Anna apparve dal viottolo che se n’usciva dai campi verso il fiume per collegarsi alla via principale del villaggio, si manifestò come una meravigliosa creatura sfuggita da una misteriosa dimensione parallela, un essere fatato a cui un incantesimo avesse concesso di oltrepassare il nascosto varco di collegamento tra i due mondi sì da camminare – lei sovrumana - come creatura mortale nel mortale mondo degli esseri umani. Veniva verso il villaggio seguendo l’andana variamente pavimentata che collegava un piccolo nucleo di case rappresentante una frazione del paese, staccata dal centro principale dello stesso; prima di innestarsi nella via costeggiata in pratica da quasi tutte le case e gli esercizi del borgo - giusto quando essa riceveva la cupa ombra delle spesse fronde di due filari paralleli di castagni dai secolari torsi massicci – la traccia campestre oltrepassava e sbucava da una fitta boscaglia come da un fosco antro arborea, il cui scuro sottobosco risultava in netto contrasto con il fulgore virente delle punte degli alberi, e nel quale pure nella più opprimente canicola estiva vi si conservava un micro-clima magnificamente fresco, gradevole. Per ciò, in quella meravigliosa mattina così unica nella sua armoniosità e pur così simile a tante altre, splendide mattine – come ogni altra sospesa in quel tempo senza tempo – Anna apparve veramente come una ninfa la cui estatica bellezza ella avesse deciso di donare alla comprensione d’ogni essere umano, come un’entità a conoscenza d’ogni minimo segreto afrodisiaco, d’ogni favore della dea anadiomene, e da questa protetta ed esaltata nella sua assoluta avvenenza.
Si muoveva con una placidità all’apparenza studiata nei dettami d’un sublime galateo, scolpita nel più ardito stile di grazia e insieme di piacere, per il quale rivelava in ogni minimo moto le più grandi virtù di voluttà, velata in leggeri vesti che parevano non tanto celare quanto evidenziare le delicate, sinuose forme carnali, lasciando nudo nella scollatura della maglia il collo finissimo nelle linee e squisitamente cinto da un leggero filo dorato, le spalle armoniose e tenuemente rosate, le braccia luminose come se di marmo apuano; lo stesso indumento graziosamente alla moda in auge regalava l’emozionante visione del ventre, nobilitato dal piccolo fine arabesco dell’ombelico, dei fianchi lisci e curvi e della parte bassa della schiena, apoteosi di carnose eufonie velate da un’epidermide brillante come la rugiada uniformemente stesa sulla vegetazione d’intorno, forse fatta essa stessa di quella tenue guazza miracolosamente fattasi leggero velo d’immane preziosità ed evanescenza; le gambe perfette si celavano nell’azzurrino del soffice lino dei calzoni tagliati appena sotto il ginocchio, aderenti sui glutei e più comodi verso le tibie, muovendosi nell’armonia del languido moto comandato dai piedi avvolti nelle lucide scarpine dall’esile tacco, chiuse sul davanti e aperte sul tallone, che ticchettavano nella quiete mattutina con quella generale, meravigliosa delicatezza della quale ella pareva avvilupparsi, elevandosi su ogni materiale cosa sfiorata nel cammino veramente come un essere troppo perfetto e superiore per solo accostarsi alle volgari cose umane, per essere confusa con esse…
Anna aveva quarant’anni, eppure splendeva di florida bellezza quale una fanciulla nel fiore dei suoi migliori anni, splendente come i suoi biondissimi capelli, che ne cingevano il volto come una veletta preziosamente intessuta da sottili refi dorati; conservava altresì nei cerulei occhi la stessa eterna, giovanile freschezza del cielo mattutino, la stessa vivacità negli sguardi mai volgari, sempre educati, discreti, quasi timidi ma certo non tali per via della sua spesso esuberante personalità, la quale esaltava ancor più la voluttuosa bellezza che portava seco; e disegnava nei suoi moti, nel cammino, nella gestualità delle mani i tratti d’un eleganza che derivava certamente dall’eleganza raffinata e armoniosa oltre ogni dire del fisico perfetto, anch’esso tanto lontano dal dimostrare un’età che solamente il tempo poteva sostenere come effettiva, credibile. A chi la guardasse, ella donava un incantevole sorriso, privo d’ogni malizia e pregno semmai d’una languidezza fatata che rendeva la pur prorompente sensualità come un attributo quasi divino, irraggiungibilmente sublime, e comunque un’espressione pacatamente felice sempre illuminava le rosse labbra, le gote più rosee e le linee d’un viso leggiadro, angelico.
Anche per tutto ciò ella, quella mattina, pareva effettivamente un’apparizione celestiale, sovrannaturale; pareva, la sua vita come l’intorno, condensata, glorificata e perpetuata in un solo, singolo istante magnificamente trionfatore sullo spazio e sul tempo, fissata nella sua grazia stupenda in un attimo di sospensione da ogni altro moto, nella sua bellezza in un minimo frangente d’immensa gloria; pareva ella aver scelto quei momenti di tranquillità aurorale per apparire tra gli intorpiditi mortali, che certo l’avrebbero confusa per una creatura fuggita chissà come dalle oniriche trame d’un soave sogno, quasi col compito di mescere magicamente la realtà con l’irrealtà, con la fantasia, con la chimera d’una appariscenza sovrumanamente umana e con l’emozione da essa fluente; ma parimenti, Anna sembrava volersi concedere solo in quei momenti di tranquillità, evitando la confusione pur limitata e pur entropica del piccolo centro del fondovalle durante le mattinate di lavoro e di attività, quasi a voler mantenere su di sé un alone di misterioso fascino effettivamente superumano, lontano da ogni conformità, quasi a far che la Natura concentrasse su d’ella tutta la sua forza evocatrice di favolose mitologie divine sì da elevarla in un pantheon ultraterreno solo a lei dedicato, quasi a divenire bellissimo nume dominatore sulla stessa Natura e sulla sua bellezza – ella solamente tanto virtuosa da poter essere investita di tal pregio, quasi a rappresentare un simbolo vivente e umanamente concreto di quella stessa meravigliosa Natura dalla quale pareva apparire, manifestarsi divinamente ogni qualvolta ella sbucava in vista delle case del villaggio uscendo dalla lussureggiante e cupa boscaglia che il viottolo percorso attraversava, nella magia infinita e incommensurabile d’un istante lungo come un’infinitamente profonda emozione, quale Anna sola sapeva donare.
 
 

(Calolziocorte, 31 Luglio 2000)

 

 

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