..
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Il poeta
 
 
 

Nel villaggio tutti lo chiamavano il Poeta. Egli, soprattutto con i bambini che vivacemente lo salutavano dai balconi delle case nel mentre che a sera tornava verso la sua semplice ed accogliente baita in cima al borgo, aveva sempre qualcosa da dire o da narrare, di gentile, di simpatico, di pittoresco e suggestivo; ad essi raccontava coloritamente scampoli di leggende e favole della valle, e sapeva farlo in modo sì intenso e partecipe da parer uno di quei cantastorie che fino al principio del secolo allietavano le piazzette dei vari villaggi sparsi per la vallate che scendevano dalla Grande Montagna: i piccoli fermavano i propri giochi per ascoltare la tranquilla voce dell’uomo e per farsi rapire dai favolosi scenari che certamente egli sapeva trasmettere – come per un magico fenomeno parapsicologico – in quelle menti ancor pure e raffrescate dalla genuina e frizzante fantasia infantile. Ma anche per uomini e donne del paese, giovani e adulti, aveva sempre qualcosa in serbo di prezioso, un consiglio, un’indicazione, un parere od anche soltanto qualche parola delicata ed efficace con le quali sapeva infondere armonia, calma, serenità o viceversa vigore, energia, forza di volontà.
Ogni mattina ed ogni tramonto – prima in un senso poi nell’altro – egli attraversava il villaggio scendendo dalla propria dimora, ed il suo passo flemmatico e sempre costante pareva quello stesso della Natura intorno, quasi che sapesse armonizzare la propria vita con quella naturale legata al ritmo delle stagioni; il profumo della sua pipa, immancabilmente pendente dalle sue labbra, ne segnalava il passaggio, e quasi sempre v’era qualcuno che lo raggiungeva in strada per porgli qualche domanda, alle quali mai l’uomo mancava di dedicare anche solo qualche attimo ed una risposta.
Non era vecchio, pur se la sua condizione culturale di compositore lirico poneva sui suoi abiti e sulla sua immagine – a guisa d’un mantello prezioso degno d’un nobile dignitario – un alone palpabile di saggezza atemporale e infinita che negli occhi dei compaesani lo mutavano in un’entità quasi sovrumana, un sacerdote di un culto misterioso certamente fondamentale per le sorti dell’umanità intera. Aveva pubblicato parecchi libri e molti di successo, ma quando la più gran notorietà ne avrebbe di sicuro portato l’immagine all’attenzione dei maggiori mass-media nazionali ed esteri, egli aveva deciso quasi di fuggire, di estraniarsi dal gorgo irrefrenabile della celebrità prendendo casa al villaggio, in cerca di tranquillità, ispirazione nonché per soddisfare quella che in ogni caso era rimasta la sua più gran passione, l’andar per i monti. Ecco, certo egli non era così vecchio da rinunciare a tale attività, e facilissimo era incontrarlo per il labirinto dei sentieri che percorrevano i declivi della Grande Montagna, ma non solo: dotato di una discreta conoscenza delle tecniche alpinistiche, spesso si cimentava pure sulle ardite pareti del massiccio, e se fosse stato parte del suo carattere egli si sarebbe potuto vantare anche di qualche prima ascensione su alcune vette e punte – non imprese estreme, ma sicuramente del tutto rispettabili. Lassù diceva di trovare la migliore ispirazione per i suoi componimenti, ed ai giovani che parevano reticenti nell’affrontare le grandi fatiche dell’alpinismo, egli assicurava che in quella fatica, in quel sacrificio al quale la volontà sottoponeva il corpo, e nel superamento di quelle prove a cui la montagna sottoponeva chi osava sfidarla, l’uomo poteva finalmente divenire una unica essenza, corpo-mente-anima-spirito, e tale unione portava la coscienza dell’alpinista a livelli che mai avrebbe saputo raggiungere in condizioni normali: era come se per ogni passo d’ascesa verso la vetta o la meta prescelta, pian piano s’aprisse la porta di un magico passaggio di transito verso dimensioni sconosciute, nelle quali l’uomo poteva finalmente mescersi con tutto ciò che lo circondava e così andare in profondità nella comprensione dell’essenza delle cose, e soprattutto poteva percepire quell’essenza, percepire come ogni cosa dal semplice masso o fiocco di neve fino all’entità più complessa – ogni cosa godeva di una propria essenza, di una propria vita, forse differente dalla normale concezione di vita che poteva vere l’uomo comune, ma certamente anch’essa fondamentale, quale parte integrante di quell’Universo nel quale ogni cosa pareva messa non a caso, non senza criterio ma in base almeno ad un principio fondamentale, quello di essere sorgente ed effetto del gran fremito di vita che percorreva l’intero infinito.
E non solo i giovani restavano affascinati dalle sue parole, che volentieri pronunciava anche – a guisa di improvvisati e pacati monologhi – sulle vette della Grande Montagna, quando la sua scalata sovente solitaria per scelta veniva rallegrata dalla compagnia di altri alpinisti che presto comprendevano la grande carica umana che animava l’uomo. Raccontavano certi d’aver raggiunto qualche cima, ed averlo trovato lassù, solitario, intento a scrivere su un piccolo blocchetto parole, impressioni, idee che spesso subitamente divenivano versi, poesie o accenni di liriche che egli sapeva poi sviluppare in altri momenti; ma subito si fermava, quando altri alpinisti lo raggiungevano sulla vetta, e volentieri si intratteneva con gli sconosciuti con una affabilità che – nel momento della discesa a valle e del saluto - diveniva subito in essi splendido e affettuoso ricordo; altri lo avevano incrociato tra i fantasmagorici giochi di luci ed ombre delle maestose foreste sopra il villaggio, e il distinto uomo che come d’incanto appariva tra la rigogliosa vegetazione veramente dava a molti la fervida impressione d’un druido medievale che, continuando ad appuntare chissà cosa sull’inevitabile taccuino, pareva ricercare nell’armonia naturale i misteriosi algoritmi e gli elementi celati delle leggi ancestrali che governano il mondo intero, elaborandone poi prodigiose magie le cui formule egli sapeva ben velare – come un linguaggio cifrato per iniziati – nei melodiosi e leggiadri versi che sapeva comporre.
Questi – egli diceva spesso – altro non erano che la voce del cuore, e la mente cosciente aveva il solo compito di appuntarli e renderli leggibili ad altri: in essi era evidente il grande amore che conservava nel cuore per la Grande Montagna, nonché la fremente volontà di armonizzare la vita con il ritmo naturale, non solo nelle azioni materiali ma anche e soprattutto nello spirito, sì da tornare ad essere finalmente veri figli della vera Madre. In fondo, i suoi versi erano delicatissime grida d’invocazione al sovrumano e al divino che bene venivano rappresentati dalla maestosità della Grande Montagna, grida di affermazione di un sogno appassionato, quello di rendere la vita propria sublime nell’essenza più profonda quanto lo era nella sua bellezza la montagna, la Natura, il cielo, la vita…

Anche sul piccolo foglio del taccuino che i soccorritori trovarono sulla massima vetta della Grande Montagna v’erano appuntati pochi ma meravigliosi versi, che ribadivano quel suo ardente sogno e che negli eventi parvero veramente il suo testamento spirituale. Egli aveva deciso di tornare a salire la massima vetta del massiccio – dopo tanti anni dalla prima volta: di ciò già da tempo ne parlava ai compaesani che incontrava, quand’essi portavano i discorsi sull’andare per i monti, e voleva farlo in solitaria – cosa invece questa che mai aveva compiuto. D’altronde l’esperienza accumulata di tanti anni d’alpinismo rendevano quella volontà perfettamente fattibile nei limiti del ponderabile – ovvero entro quel confine oltre il quale forse, quel giorno a differenza di tanti altri – egli non era riuscito a vedere.
Il corpo non venne più ritrovato – e non ancora oggi; nessuno mai riuscì ad appurare le cause della tragedia, anche se quella più considerabile fu la scivolata su qualche placca di ghiaccio e la caduta violenta dalla parete, probabilmente entro uno dei tanti crepacci che movimentavano a guisa d’un algido girone infernale molte parti dei ghiacciai che scendevano dalle più alte vette. Quei versi rinvenuti sulla vetta vennero incisi a fuoco su una tavola in legno d’abete tornita da un artigiano locale, ed esposti in una sorta di bacheca permanente nella piccola piazzetta del villaggio, a mò di minimo ricordo per quell’uomo così amato dai compaesani e nell’attesa di un futuro monumento alla memoria – cosa che peraltro egli sempre diceva, con la sua caratteristica modestia, di non volere.
Spesso anche chi li conosce ormai mnemonicamente si ferma e li legge:

Io sono un dardo infuocato
Che va lassù – verso fulgenti stelle,
Verso il grande fuoco eternato
Dalla gloria delle notti più belle;

Una freccia ardente e appassionata
All’arco della Gran Montagna, e le passioni
La corda tesa: io sono la delicata
Arma di un cacciatore di illusioni.
 

(Calolziocorte, 26 Febbraio 2001)
 
 
 

 

 

TORNA ALL'INDICE