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L’Uomo senza più ombra
 
 
 

Carlo Prumirni, di anni quarantotto, sposato, un figlio - con un pesante e goffo movimento, accompagnato da un basso mugugno, sporse il braccio dalla pesante trapunta di color marrone che ne copriva il corpo disteso a letto per interrompere il cicalio elettronico della sveglia, già da non poco echeggiante nella stanza immersa nel buio. Il braccio percorse lentamente e meccanicamente una parabola, dal bordo del letto al comodino – il consueto movimento, solito, sempre uguale, da tanti anni a questa parte, tanto che l’aria del locale, in quel punto, pareva in qualche modo aver assorbito l’effetto del movimento dell’arto, ne fosse rimasta la traccia, come il solco d’un sentiero delineato in un prato dal continuo, ininterrotto passaggio.
Ancor più pesantemente si levò dal giaciglio, quasi spossato e parimenti confuso, incapace di comprendere il motivo di quella stanchezza. Impiegò ancora qualche secondo per schiudere le palpebre, e per rendersi conto che la stanza non fosse del tutto buia, o forse lo sembrasse per via che gli occhi non si fossero ancora aperti… La luce solare già penetrava attraverso le imposte, lasciando nelle vicinanze della finestra un flebile e pur già luminoso alone, ma l’uomo ne ebbe quasi fastidio… L’inizio di un nuovo giorno, un altro giorno… Il tepore del letto, la dolce sicurezza del sonno richiamava lo spirito impacciato e indeciso, nelle quattro mura domestiche resisteva la certezza d’un rifugio, d’un ricovero nel quale anche la gloria meravigliosa della luminosità diurna sembrava un elemento di inquietudine, incontrollabile, inconcepibile… Tuttavia la sveglia aveva suonato, e Carlo Prumirni, in fondo, non si rese nemmeno conto di quella luce, la capacità percettiva forse abbandonata in qualche anfratto onirico – o in qualche meandro di realtà, lasciata lì, come l’acqua d’un fiume ristagna in una ampia ansa scostandosi dal corso vitale della corrente…
La signora Prumirni, accanto, sembrava dormire ancora profondamente. 
L’uomo si alzò, con fatica, poi barcollando si diresse verso il bagno. Cambiò direzione, a metà corridoio, due passi verso la cucina, poi si voltò ancora, e ancora verso il bagno. Non si curò d’osservare oltre il ristretto ambito nel quale le poche, semplici azioni di quei momenti si sviluppavano, da tanti anni a questa parte, forse non ve n’era nemmeno il bisogno… A che pro, d’altronde? Che sarebbe servito guardar oltre, osservare al di là? Forse che, se egli avesse aperto le imposte e osservato il cielo, e si fosse accorto che sfolgorasse di rosso, e il Sole fosse divenuto nero, o viola, o chissà come, e che il fiume di là dal ponte scorresse all’indietro, o che piovesse e la pioggia però salisse dal basso verso l’alto e non viceversa – forse sarebbe cambiato qualcosa nel corso delle sue azioni quotidiane di quei momenti? E poi, anche se ce ne fosse stato il bisogno, o la volontà, probabilmente non c’era il tempo necessario, proprio no!… E se esso vi fosse stato, perché farlo?…
Il bus… Forse era già in ritardo… Ecco cosa poteva succedere a perdersi in elucubrazioni mentali futili e inutili…
Si lavò sommariamente, si vestì – i soliti, grigi vestiti – non v’era motivo di abbigliarsi meglio – la colazione, il caffè sempre troppo dolce o troppo amaro, i biscotti sempre finiti, e quando c’erano sempre troppo stantii. Tuttavia egli riteneva inutile prestare troppa attenzione a queste piccole cose - ne aveva avuta prova solo pochi istanti prima – e sempre sosteneva che la vita non abbisognava di troppa capacità di pensiero: ciò non faceva altro che complicare l’esistenza, e già tanti, forse troppi, erano dediti al “pensiero”, e, comunque, quelli bastavano – erano lì apposta… Il passato era passato, il futuro doveva ancora arrivare; in quanto al presente… Beh, in fondo il presente non esisteva nemmeno, un istante che appena prima era futuro e subito dopo era passato – o così gli pareva d’aver letto una volta su un qualche libro, o giornale, non ricordava…
Vestì il soprabito scuro, prese la vecchia borsa di pelle ormai sgualcita. Nell’elenco delle azioni da svolgere quotidianamente v’era il saluto alla moglie ancora assopita, ma quella mattina, per una vaga sensazione di essere in ritardo, o qualcosa del genere, passò oltre la porta della stanza. Tanto, ella dormiva, forse…
Scese le scale – dal terzo piano al pian terreno: l’ascensore, quando non era occupato, era guasto, ed alla visione della porta dello stesso scattava sempre automatico il pensiero di un sollecito ed una protesta presso l’amministratore del condominio… Sempre da due o tre anni a questa parte, e puntualmente disatteso; d’altronde ci dovrebbe essere pur stato qualcun altro, nel palazzo, ad aver contattato il responsabile… Si premurò con sé stesso di appurare questa cosa, cercando di fissarla in qualche modo nella mente.
La fermata del bus – il 56, un quarto d’ora scarso di percorso, fino giusto davanti all’ingresso dell’ufficio – distava dal condominio non più di duecento metri, sullo stesso lato del marciapiede. La giornata pareva bellissima, il cielo assai limpido e la temperatura mite, ma nuovamente un certo fastidio egli sentiva di accusare verso quella gloriosa bellezza naturale che inondava lo spoglio viale d’un fulgore favoloso, persino esagerato per quell’ambiente dismisuratamente urbano ove sembrava che unica peculiarità fosse il flusso continuo del traffico automobilistico, il rumore dello stesso e l’indifferenza di ogni altra essenza. Ma quella mattina i profili degli alti palazzi sembravano aver trovato ciò che potesse sconfiggere la loro incombente monotonia, e le lunghe ombre spante lungo il viale si mescevano ad ampi spazi di limpida luminosità in un continuo gioco di luci e semioscurità così particolare da sembrare dipinto da uno di quei grandi pittori le cui opere egli vedeva sovente allegate in omaggio a qualche quotidiano, ma di cui, per nessuno di essi, ricordava in quel momento il nome…
Stranamente, quella mattina, il marciapiede era assi meno affollato del consueto. Carlo Prumirni se ne rese conto anche perché, a differenza degli altri giorni, stava urtando meno passanti del solito, egli così abituato a camminare con lo sguardo sempre rivolto più a terra che altrove, assorto in un non-pensiero che gli faceva trovare la sensazione vaga di un ultimo sollievo prima di affrontare le solite, noiose incombenze lavorative.
Tuttavia, i suoi occhi dovevano di lì a poco accorgersi di una cosa ancora più strana, bizzarra e straordinaria, quando nel transito in un tratto di marciapiede inondata da quella splendida luce mattutina – in un istante ove lo sguardo quasi prodigiosamente riacquisì la naturale, antica capacità di visione, di percezione del mondo d’intorno - naturale per ovvietà ma oramai all’apparenza confusa, smarrita dall’immutabile piatto orizzonte che la mente credeva di dover acquisire dall’analisi visiva – egli, Carlo Prumirni, si rese conto che la sua figura in moto e illuminata dal Sole non produceva più alcuna ombra. Niente, nulla, nessuna proiezione oscura sull’asfalto sul terreno, nemmeno a muovere le gambe, le braccia – come egli faceva nel tentativo di riacquistare la facoltà perduta…
Più sorpreso che spaventato, si fermò di colpo sul marciapiede. Prese ad osservare intorno: nulla sembrava avere qualcosa di strano, nulla che potesse in qualche modo giustificare la bizzarria di cui stava avendo prova concreta… Pensò di chiedere a qualche passante, se anche a qualcuno di essi stesse verificandosi lo strano evento, o se in ogni caso potessero confermargli la sua constatazione… Ma i pochi passanti transitavano via veloci, avvolti nei loro abiti come in scudi impenetrabili ove un mondo individuale e inaccessibile non permettesse alcuna intromissione estranea; nessuno guardava in faccia nessuno, scivolando via come d’autunno le foglie lungo la superficie d’un fiume piccolo e pur vigoroso nel suo corso; nessuno considerava alcun altro, tutti come entità quasi ectoplasmiche, presenze vaghe, incoerenti l’una all’altra… D’altronde, quando mai egli aveva goduto della considerazione altrui in quell’angolo di spazio-tempo, in quelle mattinate sempre identiche di fretta, di monotonia, di piattezza, di noia, di sterilità vitale? Tutti verso il proprio lavoro, tutti verso un compito da svolgere per ottenere qualcosa in cambio: giusto, ovvio, naturale, ma con quale cognizione della realtà, con quale valenza rispetto al resto del mondo intorno? Ma in fondo era giusto così, deve essere giusto così, la realtà si regge su queste cose… Eppure…
Eppure l’ombra era scomparsa. Veramente, bizzarramente, non c’era più. Come inebetito, immobile sul marciapiede, travolto da un qualcosa di improvviso e misterioso, molto molto più grande di ogni sua possibile capacità di comprensione… Possibile che nessun altro si rendesse conto di quell’assurdo fenomeno, nessuno di quelli che gli passavano accanto veloci e perfino disdegnosi? Avrebbe voluto, in quei momenti, un poco più di presenza di spirito, di forza d’animo, per fare qualcosa, per risolvere o almeno comprendere la situazione, ma con l’ombra pareva essere scomparsa del tutto anche la vitalità che ne animava le abituali, minime azioni quotidiane… 
Si scostò un poco, con passi lenti raggiunse una zona d’ombra, qui si fermò qualche secondo. Si stava sbagliando? Era tutto una specie di allucinazione? Forse sì! Rise sommessamente, pensando che, probabilmente, quella mattina si era svegliato veramente in malo modo, prima di tornare – ancora con la massima lentezza – verso una zona illuminata…
Niente! Nulla, nessuna ombra… La sua figura, perfettamente illuminata dal Sole sfavillante in costante ascesa sull’orizzonte… E nessuna ombra!… Nessuna…

Si accostò al muro, molto agitato, terribilmente confuso e scosso – ancor più per l’incapacità di comprendere l’evento, per il non poter capire non soltanto il motivo, ma neppure il fatto stesso – per non capire, in realtà, nulla di nulla di ogni cosa…
Accanto al marciapiede, un muretto basso e sporco di smog e di grigiume vario; vi si appoggiò, sconfortato seppure senza intendere da che cosa. Lo sguardi si smarrì per qualche lungo istante nel vuoto assoluto d’una condizione d’impotenza verso un fatto tanto bizzarro quanto assurdo, impossibile eppure reale, concreto, ormai assodato. Il bus che lo avrebbe portato verso il luogo di lavoro si avvicinava, tra pochi minuti sarebbe transitato, ma Carlo Prumirni vi pensò soltanto fugacemente, senza cura, come a un qualcosa improvvisamente divenuto parte d’una dimensione diversa, lontana, discosta… Oh, ma avrebbe dovuto comunque prenderlo, anche senza ombra: l’attività lavorativa quotidiana lo aspettava, lo attendeva, lo bramava… Ma quante volte, da quanti anni egli da essa avrebbe voluto in qualche modo fuggire, in qualche maniera anche insolita ma definitiva? E non solo da essa, anche da molto del resto, dalla vita – non da tutta, ma da una buona parte, quella parte che disegnava i piatti contorni del suo orizzonte ordinario – linee monotone, dritte, con angoli retti e secchi, e mai curve, curve armoniose, parabole dalle quali lanciarsi lontano, in alto o anche solo altrove…
Tuttavia – ancora – pensare non serviva a nulla, non gli avrebbe fatto ritrovare la propria ombra, probabilmente… Seduto sul muretto – il soprabito già sporcato dalla sozzura che ricopriva quel mucchio di mattoni e cemento, egli prese ad osservare intorno, lentamente, poi a scatti, poi ancora lentamente e ancora a scatti, quasi in preda a improvvise convulsioni nervose intervallate da assenze psicologiche altrettante repentine; un istinto primordiale e rozzo ora comandava le sue azioni, o quantomeno il suo sguardo, alla disperata ricerca di un solo elemento che potesse far crollare il castello delle paure e delle angosce sempre più solido nella sua mente… 
Prese a ricercare le ombre intorno, se altri oggetti, cose o entità animate presenti nel panorama visivo presentassero la sua stessa straordinaria e nuova peculiarità… Palazzi, lampioni, alberi spogli, cartelli stradali, le auto e i camion, i passanti qua e là… Quel gatto sul muretto nel cortile laggiù, i cestini della spazzatura sventrati da un qualche vandalo, i tabelloni pubblicitari, le moto e le biciclette, gli uccelli nel cielo, nel cielo azzurro, limpido, purissimo, inondato di meravigliosa luce solare – così beffardo, ironico, sarcastico nei confronti della sua condizione di uomo senza più ombra… Ebbene, tutti, tutti, tutti gli oggetti, nessuno escluso, le cose, le persone, gli animali e quant’altro – ogni cosa con la propria bella ombra… Tutti, meno lui…
Passò il bus, neppure lo vide – una scia fugace color arancione come sabbia d’un deserto trascinata dal vento e già scomparsa in mezzo al nulla d’intorno…
Che cosa gli era accaduto? Perché la sua figura non aveva più ombra? Perché si sentiva tanto estraneo in quel mondo quotidiano dove mai s’era preoccupato più di tanto di farsi considerare e di sentirsi in qualche modo considerato? E perché – per di più – in quel momento fenomenale, di realtà eccezionale, ancor maggiormente pareva che nessuno lo notasse, nessuno percepisse la bizzarria in corso, quasi che egli nemmeno esistesse? Carlo Prumirni si interrogava, cercando di recuperare un minimo di lucidità mentale – per quanto gli accadimenti lo consentissero, ma le domande nella mente echeggiavano confusamente rimbalzando qua e là nel caos di mille e mille paure, ingigantite dalla assoluta misteriosità e inconcepibilità del fenomeno vissuto. Egli sentiva di dover comprendere il motivo di quella cosa, ma ancor prima e fondamentalmente che cosa fosse quell’evento, e l’impresa pareva sconfortarlo fin dal suo concepimento… Seduto sul muretto sporco, ebbe la terribile sensazione di essere alieno al mondo intorno, di non farne più parte per qualche oscuro motivo: una sensazione raggelante, terrificante, atroce.
Forse era nel bel mezzo di uno sconosciuto fenomeno fisico, che per chissà quale concomitanza di fattori provocasse la mancanza di ombra? Forse…
O forse un improvviso e inaspettato difetto ottico impediva alla propria vista di osservare la scurità dell’ombra, il colore spento, quel tono tenebroso? Forse…
E se – ancora – il tutto fosse il frutto di una inopinata allucinazione? Forse…
Restò ancora, per lunghissimi istanti, inebetito. I passanti transitavano sempre veloci, incuranti di ogni cosa, apatici. Doveva essere il caso di avvertire la moglie, chiamare un dottore, prendere qualche medicina atta al caso – ve ne sarà stata sicuramente qualcuna adatta all’uopo: a casa aveva una farmacia ben fornita… Beh, certo, qualche medicinale forse era scaduto, ma… E se dormiva ancora – la moglie? Pareva più assopita del solito, quella mattina…
Si alzò dal suo misero e sporco seggiolo. Volle dare ancora una lunga e ponderata occhiata intorno, prima di tornare verso casa, ed alzandosi percepii vivamente una tremenda spossatezza, che sembrava essersi profondamente impadronita delle sue membra, fino alle ossa… Nulla era variato rispetto a poc’anzi: ogni oggetto con la propria ombra, il traffico, il cielo limpido, il Sole già alto, il puzzo dello smog, i passanti veloci e indifferenti, la sensazione fortissima di alienazione totale, di paranoica estraniazione, la confusione che pareva levare essenza, valore e significato da ogni cosa… L’assenza della sua ombra… L’incapacità di comprendere, l’impressione viva di essere alla mercé d’un fenomeno troppo grande per essere compreso…
S’incamminò, stancamente, lentissimamente, verso casa.

Dopo solo pochi passi si fermò, bloccandosi del tutto in mezzo al marciapiede, tremando appena appena. Se qualcuno lo avesse notato, avrebbe visto disegnarsi sul viso un’espressione stralunata, quasi folle, alternata ad un’altra assolutamente terrorizzata, sconvolta. Ma tutti scivolavano via accanto alla figura immobile sulla banchina, nella cui mente eccitata dalla straordinarietà del vissuto e dallo sgomento un’ipotesi assurda, sconvolgente e illogica si stava formando.
Si voltò intorno con scatti nervosi, convulsivi, due, tre volte, come se qualcuno lo minacciasse gravemente, quasi alla ricerca di una ultima via di fuga consapevolmente impossibile, ormai… Ma come poteva essere, quella, la spiegazione di ogni cosa, come sarebbe stato possibile? No, non poteva essere vero, era una assurdità! Certo, di sicuro… Impossibile… Eppure…
Nel mentre che il tremore sparso per il corpo intero aumentava d’intensità, riflettendosi nella mente con la più terribile entropia, Carlo Prumirni si sforzò di mantenere e seguire un filo logico dei fatti di quella mattina, ripassando ogni cosa nel tentativo di confermare o confutare quell’idea strampalata che gli era balzata improvvisamente in testa.
Dunque, si era alzato, stancamente, come al solito, già in quelle ore d’inizio giornata, svogliato, abulico – è vero, ma si era alzato; la moglie dormiva, molto profondamente, non lo aveva proprio nemmeno sentito… Di solito si svegliava, brontolava qualcosa, protestava per il disturbo; una volta si alzava per preparagli la colazione, ma ormai da qualche tempo… E quella mattina proprio nulla… Poi, che aveva fatto? In bagno, la solita frugale colazione, si era vestito, era uscito… Il marciapiede, il bus da prendere, il lavoro che lo attendeva… Le cose ordinarie, le azioni quotidiane sempre uguali, meccaniche, monotone, mai una variazione, almeno fino a poc’anzi…
Ecco, anche il marciapiede, i passanti: meno, molti meno del solito, e ancor più indifferenti rispetto alle altre mattine, estranei, lontani quasi… Come se egli e il mondo d’intorno si muovessero su due piani differenti, separati, senza più possibilità di interazione… Oh, certo, tante altre volte aveva avuto quella sensazione, ma così, come in quel momento… Quasi che il mondo intero non lo considerasse più, via, inesistente, non più parte della realtà…
Allora, veramente poteva essere concreta l’assurda ipotesi così vivida nella mente? La moglie che non lo aveva sentito, per nulla; i passanti, impassibili, distaccati come mai prima d’ora; il mondo lontano, lontanissimo, separato, tutto così strano, così incoerente; la sensazione vivida e dominante di alienazione… E la scomparsa dell’ombra…
Un violento fiotto di lacrime gli rigò velocemente il viso impallidito e atterrito. Era così assurdo, ma così possibile, terribilmente possibile… E come null’altro spiegava quella paradossale situazione… Ebbene, non poteva che essere morto! Egli era morto, Carlo Prumirni di anni quarantotto era morto, chissà come ma morto, deceduto, andato, spirato… Morto!
Si sentì svenire ma non svenne, non cadde in terra. Si appoggiò ad un muro accanto, il corpo in preda a intense convulsioni frutto del terrore e del pianto a dirotto, irrefrenabile – immobile, rigido, senza più forza alcuna nelle membra e nello spirito, ormai inconsciamente consapevole della propria certa fine. E così rimase, per interminabili attimi, lunghi più che un’eternità o forse brevi, brevissimi, fulminanti, in una nicchia mortale senza più tempo, senza più alcuna valenza vitale, inerte.

Si riebbe improvvisamente, come colpito da una fortissimo malrovescio, madido di pianto e di sudore, infreddolito, scosso da violenti brividi; era sempre lì, immobile e appoggiato al muro accanto al marciapiede. D’istinto guardò subito verso terra: no, l’ombra non c’era, non ci sarebbe stata più. Era morto, veramente…
Si asciugò le lacrime col bavero del soprabito, si tirò dritto, sui piedi. In fondo, che serviva piangere? Nulla, come niente più d’altro sarebbe servito, ormai! I vivi potevano piangere per la perdita di qualcosa, ma egli era morto, dunque… 
Che doveva fare, ora? Come si devono comportare i morti, quando muoiono? Sarebbe pur dovuto andare da qualche parte, in teoria… O forse solo dopo il funerale? Era assai confuso prima, da vivo, ma anche ora la situazione non s’era variata poi di tanto… Prese a camminare, molto lentamente, verso la parte opposta del viale rispetto a quella che tutte le mattine percorreva, per andare alla fermata del bus; la strada correva dritta fuori dalla città, da quel lato. Pensò che era tanto, tanto tempo che non percorreva quel tratto di strada, che nemmeno più ricordava il paesaggio che si trovava laggiù: sempre obbligatoriamente legato ai soliti percorsi, casa-lavoro-casa e poco più, in una tarpante monotonia che aveva fatto smarrire ogni volontà di variazione dell’orizzonte, della visione degli occhi, di percepire qualcosa di diverso se non di nuovo… Bizzarro che soltanto ora, da morto, si ritrovasse a percorrere quella via… Anzi – ancora più bizzarro e particolare – d’improvviso si ricordava che una volta, tanto tempo addietro, aveva letto qualcosa di un tale che non aveva più l’ombra, o qualcosa del genere… Sì, certo, ma cos’era? Un film, o uno sceneggiato in TV, o forse un libro… No, difficile che fosse un libro, non aveva mai letto troppo, pur se tante volte si era ripromesso di cominciare a farlo, ma puntualmente, ogni volta, il tempo libero si dileguava in insulse visioni televisive o in nullaggini varie… Non ricordava cosa fosse, che storia fosse di quel tale, ma strano era comunque, che anche ad egli capitasse la stessa insolita cosa… 
Tante cose, in effetti, avrebbe dovuto fare nella propria vita – egli pensava, mentre continuava a camminare con lentezza: cose di valore, più di valore e importanza – di certo - di quelle che per tanti anni s’era ritrovato a fare, e che l’apatia del tempo presente cancellava da ogni possibile intendimento… Sempre le solite azioni compiva, tutti i giorni, e a volte anche in quelli ove non v’era da recarsi sul posto di lavoro: sempre, monotonamente, e le poche variazioni al programma chi le forniva? Quasi sempre la televisione, o altre cose del genere – comunque mai per iniziative proprie, per una qualche volontà di cambiamento… In fondo, che differenza c’era tra la sua vita e quella d’un carcerato? L’attività quotidiana era come scandita da una tabella rigida, allo stesso modo che in un carcere: sveglia-colazione-lavoro-mensa-lavoro-cena-letto, e così via, il giorno dopo ancora e quello dopo ancora, e ancora… L’ora d’aria, sì, nel tragitto tra la propria abitazione e il posto di lavoro e niente più! La domenica, qualche gita fuori porta – ecco, questo non è permesso a un carcerato, ma almeno egli non si sarebbe ritrovato a passare ore intere nel traffico e in un qualche ingorgo respirando aria putrida per giovarsi di qualche momento di svago al lago o in montagna – quasi più scarso che il tempo passato in automobile… E le vacanze? Sì, le vacanze estive: sempre uguali, in un posto o nell’altro ma sempre le stesse, ordinarie vacanze… Forse, la vita del carcere contava meno aspetti negativi: vi era libertà, in effetti, nella sua vita? La libertà vera, reale, pura, l’anelito verso cui ogni essere umano e ogni creatura vivente tende e desidera? C’era la libertà della società moderna, calata dall’alto, libertà imposta e indissolubilmente legata a dettami fissi stabiliti dal conformismo, dai cosiddetti benpensanti – e chi sono poi questi? Quali diritti vantavano su di egli, e per quale potere? La sua vita era quella di un uccellino in una stretta gabbia, con la possibilità di volare, sì, ma in un così ristretto spazio… E che vita era, dunque? Per questo si doveva venire al mondo, e per null’altro di più interessante?
Tante tante cose, veramente, egli si rimproverò di non aver fatto nella vita: anche piccole, semplici, ma di valore, di un qualche spessore e bontà, qualcosa di cui andare un poco fieri con sé stessi… Qualcuno forse già disse che le grandi cose sono fatte di miriadi di altre più piccole…
Restò assorto, continuando a camminare con lentezza lungo il viale che portava fuori dal grande agglomerato urbano, pensando a tutto ciò che, in quel momento di straordinaria assurdità, gli capitava in mente. E provò un sottile, placido e pur vibrante piacere nel constatare ciò: stava pensando, gli piaceva pensare, sentiva di riscoprire un diletto abbandonato da tanto tempo… Ecco – per l’appunto – una cosa che avrebbe dovuto esercitare ben più spesso in vita! Perché non aveva mai pensato come stava facendo in quel frangente! Un’attività semplice, la più semplice, eppure una delle più grandi a disposizione dell’uomo, l’unica, reale libertà veramente in possesso dell’essere umano! Ma pensare gli sembrava inutile, in vita, quando la routine quotidiana offriva tutto di quello di cui riteneva di necessitare, e tutto quello oltre pareva qualcosa di irraggiungibile; ora, bastava giusto qualche pensiero, mettere un poco in moto la ragione, l’intelletto e mille semplici e parimenti fondamentali verità uscivano dalla fitta nebbia grigiastra che le celava come per effetto di un colpo di vento improvviso… Si rallegrò di ciò – per quanto potesse servire il pensare, una volta defunti – ora che nemmeno più la luce lo teneva in considerazione, privandolo dell’ombra!…
Già, ecco perché non più l’ombra della sua figura si disegnava sul terreno! Ovvio, che se ne faceva uno spirito dell’ombra? E forse già il suo corpo era divenuto evanescente, come quello d’un fantasma… Se così era, tuttavia, ad egli non ne veniva fornita prova, per il momento…

Proprio non pensava, Carlo Prumirni, che la sua morte potesse essere così… Così particolare, inconsueta, bizzarra… In verità, non aveva mai pensato a come potesse avvenire la propria morte – non era certo il caso di farlo, da vivi… Fortunatamente era stata indolore, o almeno di una qualche sofferenza egli non serbava il ricordo… Mille e mille altri ricordi, viceversa, passavano per la sua mente, quasi tutta la vita, in pratica – proprio come dimostravano nei film, quando in fronte alla morte, l’intera vita di un individuo viene mentalmente raffigurata come una pellicola in un cinematografo… Con non poca confusione – e visioni spesso sbiadite dall’apatia – egli rimembrava buona parte della sua vita, con vari flash su momenti di quotidianità, su giornate normali e su altre particolari, come sprazzi di luce in una stanza dei ricordi altrimenti pressoché buia…
La sua vita più recente: monotona, piatta, senza valore, senza volontà di cambiamento, di innovazione, soggiogato dall’ordinarietà, soffocato dall’abulia, stordito dagli ingannevoli scintillii della società contemporanea, unico fugace ed effimero svago dalla tediosità d’insieme… La nascita del figlio… Il matrimonio… La giovinezza, quando gli istinti vitali sembravano fornire la forza per rovesciare il mondo intero, e che poi la stessa si stemperava velocemente in mille delusioni, sconforti anche piccoli, spesso ingiustificati, mai compresi del tutto – in quell’età nella quale l’istinto non s’asserviva ancora all’intelletto ma ad una più rozza e incolta fisicità… La scuola, l’adolescenza… I primi amori, le prime indipendenze – bastava stare lontani un giorno intero da casa per sentirsi spiriti liberi, girovaghi di un mondo circoscritto in pochi isolati… E l’infanzia, quando col nonno, in campagna, spesso si recava ad esplorare colline, vallette, boschi – nulla di speciale, in fondo, in quegli spazi naturali a pochi chilometri dal centro della città e che eppure parevano divenire gli sconosciuti territori d’un continente lontano ove la fantasia si potesse sbrigliare e lasciare correre liberamente…
Già, la fantasia, un’altra grande sconosciuta nella vita che aveva appena lasciato! La purissima energia frutto del moto del pensiero, quel vigore che permette all’uomo di poter credere anche all’incredibile, di inseguire ciò che sembra solo un sogno, di aprire il proprio spirito per ricevere le più meravigliose virtù e trasformarle in realtà nei propri moti quotidiani! Si rendeva solo ora conto che aveva compiuto azioni ben più interessanti e ricche di valore nell’infanzia, in quel tempo spensierato che dona al bambino i pensieri più puri e scevri di sofisticazione, piuttosto che negli ultimi anni di vita… Soltanto quando, nel bosco, col nonno, ci si fermava immobili, in silenzio, per udire il canto melodioso degli uccelli, o l’ondoso fruscio delle alte chiome dei faggi – sì, dovevano essere faggi e castagni… – quando il vento penetrava tra le fitte chiome arboree: almeno, in quei semplici momenti, vi era la consapevolezza della vita, e della sua bellezza profonda, intensa e favolosa; era viva la capacità di sorprendersi e felicitarsi di piccoli grandi eventi, all’apparenza insignificanti eppure potentemente significativi; e v’era la cognizione della realtà, del tempo e delle spazio, delle meraviglie del mondo dalle quali l’intelletto imparava ogni istante di più i segreti della vita… Anche soltanto queste semplici azioni, che non necessitavano di nulla più che d’un animo puro e ben predisposto, avevano seco un grande valore: grazie ad esse, la vita era colma di cose nuove, e si riusciva a coglierle… Anche ora – o meglio fino a poc’anzi, quando era in vita, il mondo certo offriva miriadi di novità, ma come si poteva percepirle, chi lo poteva fare? L’abitudine alla piatta quotidianità avevano tolto alla maggioranza queste semplici e basilari doti, e consapevolmente – e colpevolmente – egli di ciò si rendeva conto senza avere la forza e la volontà di comprendere… L’uomo, attraverso l’abitudine, si assicurava contro l’invadenza delle cose esterne, delle novità, che in un modo o nell’altro fanno e faranno sempre paura: ci si chiudeva in un mondo proprio, negativamente egoistico e nel quale si riteneva che ci si trovasse bene, soddisfatti e liberi: ecco, la gabbia angusta del povero uccellino di poc’anzi! Eppoi, coloro che si arrogavano il diritto di stabilire ciò che è bene e ciò che è male nell’ambito della società e del tempo presente, mascheravano le solite cose, trite e ritrite, come “innovazioni”, le offrivano alla massa che le accettava dacché inebetita dallo stesso meccanismo perverso, così cogliendo i classici due piccioni con una sola fava: tutto restava uguale, ma si poteva far credere che tutto si evolvesse… Così si manteneva e si mantiene il potere, grazie allo stato di fatto immutabile! I vivi, la massa, nella sua informe enormità assorbe ogni cosa, come assorbe e devitalizza ogni possibile spunto di effettivo e giusto cambiamento: tutti erano – egli compreso - una immane e terribile ameba, che coglieva un evento, lo inglobava e lo cancellava quasi subito, incapaci di comprenderlo e di trarne qualsiasi significato…
Come tanti zombies – si diceva così, ad egli pareva – vivi tutti eppure, in qualche modo, morti spiritualmente: e il mondo scivolava via, immutabile continuamente verso il futuro tenebroso…
Forse già da vivo egli non la meritava proprio, l’ombra – rifletté sconsolato… Essa sarebbe stata la prova che il copro era illuminato, e non solo dalla luce solare ma anche dal valore prezioso della vita, dal fulgore delle più semplici virtù, cancellate invece dalla quotidianità a favore di mille e mille cose insulse e inutili ma capaci di donare quel piacere effimero tuttavia così di moda nella società moderna… E intanto il tempo correva, fuggiva via, e pur nella cognizione di ciò, egli non aveva fatto niente per nobilitare anche solo un poco qualche ora della sua vita… Ebbe un improvviso scatto di rabbia, fendendo l’aria intorno con un pugno verso il nulla – ma in verità rivolto verso tutto quello che era stato – o non era stato nel corso della sua vita… Il tempo fuggiva, veloce, irrefrenabile, verso la morte: e si doveva proprio morire per pensare un poco a tutto ciò, e rendersi conto di ogni cosa? Già, ecco, in realtà egli era già morto, già in vita, nel profondo del proprio spirito, spento da ogni cosa – lo aveva pensato poc’anzi: dunque, morto per morto!…
Bastava poco, così poco – e fare qualcosa per sé e per tutto il resto del mondo: un piccolo pensiero, un minimo sforzo mentale, una semplice azione… Morto, ora era morto…

Da ormai tantissimo tempo camminava, tante ore, forse, ma ormai aveva completamente perso la cognizione di ciò… Carlo Prumirni avvertiva in sé uno stato d’animo particolare, mai provato prima: un misto di avvilimento, tristezza, rabbia, e un vigore strano, che giudicò come inconsueto per un defunto – almeno per come egli si poteva immaginare questa condizione.
Si fermò; cercò di rendersi conto di dove fosse finito. Il lungo viale che usciva dalla città, sempre dritto, immutabile, non forniva molti punti di riferimento… Bizzarro, però: ora che era morto, che doveva succedere? Sarebbe dovuto pur succedere qualcosa… Qualcuno – chissà chi, poi – avrebbe dovuto dirgli, di norma, la sua nuova destinazione nell’aldilà… Paradiso, inferno o purgatorio? O cos’altro – dacché non si poteva escludere che tutta quella iconografia normalmente accettata fosse in realtà del tutto inventata… Forse, anche per i morti, c’era da aspettare il passaggio di un bus – come quello che lo portava quotidianamente sul posto di lavoro – solo diretto verso un’altra dimensione, verso il regno dei morti, e chissà di che foggia e di quale colore… Sarebbe stata molto triste, tuttavia, un’evenienza del genere: v’era da prendere un bus anche da defunti, con tutto il contorno di code, biglietti, ressa e così via?…
Si guardò intorno, lungamente. Concluse che doveva essere ormai parecchio fuori dalla cerchia urbana, e ormai il viale percorso era divenuto un’arteria a grande scorrimento, con le auto che passavano accanto veloci, fastidiose con il loro rumore e il puzzo degli scarichi… Il paesaggio però era cambiato, radicalmente: la strada si snodava ai piedi di alcune verdi e tondeggianti colline, che più dietro salivano in altitudine formando tra di esse tante vallette; sui pendii, la vegetazione variava spesso, conferendo al panorama un armonioso susseguirsi di colori e di toni: prati verdi, alti alberi – castagni, riteneva – qua e là filari di viti… Sotto di sé, la strada transitava tramite un ponte su un torrentello, che usciva spumeggiante da una di quelle vallette e giusto lì prendeva un corso più placido, da pianura… Sotto la strada, nella piana verso la città, tante grandi infrastrutture industriali, qua e là tra campi coltivati… Povero torrente – egli pensò, che cosa gli sarebbe aspettato ora, con tutti gli scarichi ed i liquami provenienti da quelle industrie! Povere acque qui ancora limpide, e solo tra qualche chilometro chissà di quale orrendo colore!…
Guardò ancora intorno, contemplativo. Sì, aveva camminato veramente tanto, senza rendersene conto… La città si vedeva laggiù, lontana, attraverso una leggera foschia grigiastra, nella direzione verso cui correva la strada.. Pensò che stava sostando in un punto ove era evidente e netto il contrasto tra due mondi assai diversi: da un lato la città, la modernità, la società cosiddetta civile, i beni e gli agi e la ricchezza; dall’altro, alle spalle, la natura, le colline e le valli, i fiumi e più dietro i monti, tutti sinonimi di un’altra vita, forse migliore, forse peggiore, certo più spontanea, più genuina, anche più libera… Sembrava veramente che fosse tornato bambino, al tempo delle passeggiate nella natura con il nonno… Ed ora come allora, sentiva di aver riacquistato – almeno in parte – la facoltà di vedere, di percepire la realtà, di comprenderne l’essenza – tutti quei piccoli e grandi elementi che ne formano il valore, materiali e immateriali, magici, forse, o quanto inconoscibili all’intelletto umano tarpato dal fango del pantano nel quale confluiva e stagnava l’ordinaria vita – come acqua pura, in principio, ma poi inquinata dal liquame – sì, come quel torrente spumeggiante e poi placido, e laggiù verso la grande città, purtroppo…
E c’era bisogno di morire per riscoprire tutte queste semplici, grandi cose! – egli ancora pensò, ponendosi le mani a coprire in parte il volto come per una improvvisa cognizione di vergogna, di autocommiserazione… Era un privilegio dei morti la possibilità di comprensione profonda della verità della vita e del mondo? Ma che serviva ad essi, giacché morti erano – appunto, non più nella condizione di cambiare, di migliorare e migliorarsi, di progredire? Pareva ad egli che in tutto ciò si sospendesse una ancor più grande e incomprensibile assurdità che nella sua vicenda di morte; o forse – molto più semplicemente – bisognava soltanto in vita veramente vivi, nella carne e nello spirito, e non soltanto nelle solite azioni quotidiane comandate  dal mero bisogno proprio – in parte – ma soprattutto altrui, di quelli che “comandavano” veramente… Giusto come aveva pensato poc’anzi: vivo biologicamente, ma morto spiritualmente, così egli si era lasciato passivamente ridurre! Doveva meravigliarsi che la propria ombra non l’avesse già abbandonato da ancor più lungo tempo!…
Restò immobile, ancora assorto, rapito da quella girandola di nuove comprensioni che, come meravigliose fioriture primaverili in un campo all’apparenza ancora indebolito dai rigori invernali, spuntassero a richiamare e glorificare l’essenza più bella e pura della vita, ed egli ad osservarle con negli occhi del cuore e dell’anima una infantile meraviglia, un incredulo stupore verso qualcosa che mai si era immaginato come tale ora fulgidamente appariva… Proprio come un bambino che osservasse tanti giocattoli al di là della vetrina d’un negozio – bellissimi, favolosi, ma comunque oltre quel vetro, lontani, all’apparenza irraggiungibili, e che all’improvviso si ritrovasse quegli stessi meravigliosi balocchi in casa propria, senza aver mai saputo della loro presenza ivi…
Se solo avesse ancora potuto giocare un poco! Ritornare in vita, in qualche maniera – alla vera vita, piena, completa, virtuosa! Se solo avesse potuto farlo!… Ritornare alla vita, colmarne il tragitto di purissima energia, illuminarlo delle proprie azioni! Agire da persona veramente viva, compiendo anche soltanto parte di quelle cose che mai aveva avuto il coraggio e la volontà di compiere; dare un significato nobile al proprio tempo trascorso tra i mortali – che serviva, altrimenti, la vita? Soltanto ad “appesantire” questo povero pianeta, farlo sbandare nello spazio, trascinarlo verso una oscura e terribile rovina!
Si sarebbe distaccato dalla massa – egli pensò, sicuro d’una risoluta vigoria e vitalità che gli pareva impossibile d’avere ancora in corpo, ora che era morto; avrebbe agito e prima, come giusto, avrebbe pensato, si sarebbe sforzato di comprendere l’essenza delle sue azioni quotidiane, così da migliorarle, arricchirle, se possibile; sarebbe stato vivo, insomma - non ci voleva molto – vivo, veramente vivo… Realmente la vita era l’arte prima e più pura, l’unica e vera sacralità a disposizione dell’uomo: così egli aveva letto da qualche parte, su un libro forse, non ricordava…
Già, avrebbe letto molto di più, se fosse ritornato in vita…

Il Sole aveva già cominciato a discendere verso la sua serale dipartita; tra poco avrebbe aggiunto quelle lontane colline ad occidente, incendiandole di chissà quali meravigliosi colori; il cielo era ora di un celeste tenue, quasi eburneo, limpidissimo, e insieme all’aria fresca donava una intensa sensazione di purezza, in contrasto – ancora – con quella cappa grigiastra, laggiù, che nella sua scura densità nascondeva le forme della grande città. Sulla parte alta di quella triste cupola di veleno la luce solare stendeva già un velo dorato, quasi volesse la Natura coprire, nascondere la bruttura infamante per tutto il paesaggio d’intorno…
Dallo spiazzo adiacente alla grande e trafficata strada, nel quale si era fermato, si distaccava una strada campestre, sterrata, che passando attraverso un prato ancora acceso da una brillante erba verde si inoltrava poi in un bosco di alti alberi dalle grandi chiome. Carlo Prumirni s’incamminò adagio per quella stradicciola, infastidito dal rumore costante generato dal traffico sulla strada; desiderava un poco di pace, di silenzio, dacché si sentiva quasi frastornato; nuovamente pensò su come fosse bizzarra quella sua condizione di defunto, di anima vagante in attesa di chissà che… Ma tant’era, v’era solamente attendere il corso degli eventi sovrannaturali…
Notò, in un angolo nei pressi del quale lo spiazzo si restringeva a formare la traccia sterrata nei campi, qualcosa che lo irritò molto – e ancor più nella consapevolezza che, in vita, la stessa visione non gli avrebbe causato altro che una risata, forse un vaga, sommessa e sconnessa sensazione di impaccio: un cumulo di immondizia, di spazzatura varia – cartacce, stracci unti, pezzi di legno e di ferro corrosi ed arrugginiti dagli agenti atmosferici, carcasse di pneumatici e affinità di varia e ammorbante natura - sparsa contro alcuni arbusti e posizionato in modo che dalla strada non si potesse vedere; spostato verso questa, a solo tre, quattro metri, un cartello intimante il divieto di scarico rifiuti: i trasgressori – esso recitava - sarebbero stati puniti a norma di legge…
Bisognava veramente morire per comprendere tutta la demenza dell’umanità contemporanea!…
La terra nei pressi del sozzume era scura, ammorbata dalla puzzolente giacenza – e ancor più dall’idiozia degli sconosciuti che di essa avevano lasciato ottima e orribile prova; e brividi freddi avrebbero scosso la schiena di qualsiasi individuo dotato di normale coscienziosità nell’osservare, a solo pochi metri, oltre alcuni bassi cespugli, i campi coltivati probabilmente con piantagioni destinate al consumo…
Egli si guardò intorno un poco… Si accorse d’una cassa in legno, coperta da alcuni bassi rami, apparentemente intatta – forse contenente un qualche grosso armadio e poi lì abbandonata, insieme all’altro pattume. Con risolutezza, decise di riporre, per quanto possibile, almeno parte dei rifiuti entro la stessa: troppo irritante era la visione di essi in quell’angolo di natura bella ed armoniosa, troppo “umano” – nel significato che aveva deciso di apporre a quel termine dopo le riflessioni che, in quelle ore, aveva compiuto – lasciare che tutto rimanesse nello stato di fatto… Ecco, questa era certamente una cosa che avrebbe dovuto fare da vivo, e che, in un anelato ritorno alla vita, avrebbe di sicuro compiuto! Non poteva essere un motivo valido che, in quanto morto, egli dovesse rimanere indifferente a quella situazione: anzi, il menefreghismo era giusto una dote dell’uomo vivo… Eppoi, forse, era ancora in tempo a nobilitare – anche solo in minima parte – la sua esistenza, prima che qualche giudizio sovrannaturale – o chissà cos’altro di ciò che gli sarebbe spettato d’ora in avanti - giungesse a decretare il suo destino nell’aldilà…
Prese a riporre gli oggetti sparsi sullo spiazzo nella grande cassa: il problema non si sarebbe risolto, ma almeno lo avrebbe concentrato un poco di più, rendendolo più facilmente eliminabile nel caso che qualcuno se ne fosse finalmente accorto e avesse deciso – bontà sua e del mondo intero – di porvi rimedio… Provò subitamente un moto di gioia, di felicità, nell’eseguire ciò che si era prefisso: se pur morto, si sentiva utile, propizio non certo per sé ma per gli altri, per quel piccolo pezzo di mondo sfregiato dall’inettitudine di chissà chi… Ed intento al lavoro in corso, non sentiva più nemmeno il rumore della strada, del traffico, del mondo teoricamente civilizzato ma dalla cui presunta civiltà nessuno sapeva poter fermare piccoli e grandi scempi come quello, riposti in silenzio e di soppiatto nell’ombra dei grandi riflettori illuminanti la gloria del progresso – e abbaglianti gli occhi di chiunque - e che forse tra secoli, forse tra poco, forse già ora, sarebbero divenuti definitivamente incontrollabili…
Eh – rise egli ancora con amarezza, bisognava proprio morire per capire tutta questa semplicità…
Si voltò verso il Sole, ormai basso sull’orizzonte ma che pareva voler donare tutta la sua ultima, sfavillante vigoria di luce e di calore a quello spiazzo, ad aiutare l’uomo con il soprabito un poco sporco e sgualcito che, risolutamente, continuava a ripulire dai rifiuti il terreno…
Vi era ancora molta luce, anche se già il cielo, verso le colline e i monti più dietro, cominciava a scurirsi, divenendo d’un meraviglioso color cobalto sfumato d’oro, profondo e purissimo nel tono. Le ombre s’allungavano, mescendo ogni cosa d’intorno come a voler ribadire l’assoluta armonia tra ogni elemento vitale, in fondo d’unica sostanza, di unica costituzione, e la natura ne accoglieva le forme disegnate dal Sole e tremolanti di energia e di ardore, prima che la notte catartica giungesse a rinnovare la forza del meraviglioso prodigio denominato vita…

Carlo Prumirni si chinò a raccogliere un pezzo di metallo, forse il coperchio arrugginito d’un fusto di quelli contenenti dell’olio per motori – aveva una scritta sbiadita, ma l’ombra scura gli impediva di leggere e capire cosa realmente fosse…
Di colpo di rizzò. Osservò verso terra, poi il Sole, poi ancora in terra e il Sole e in terra…
La sua ombra! Era la sua ombra che copriva e oscurava il suo lavoro… Era ritornato a possedere l’ombra! Si scostò, fece qualche passo intorno, saltò avanti, corse un poco indietro: senza dubbio, dai piedi si staccava la lunga figura scura, che poco avanti si mesceva con quella dei cespugli, degli alberi e d'ogni cosa vicina…
La sua ombra…
Tremante, come colpito da un improvviso e potentissimo fulmine, s’immobilizzò, in mezzo allo spiazzo, il viso rivolto al cielo come incantato dalla visione d’un qualcosa di inimmaginabile.
Il Sole scese, scese ancora, illuminò di favolosi toni infuocati l’orizzonte intero, coprì d’un velo color oro e rosso sangue il paesaggio, come spargendo d’intorno innumerevoli diamanti riflettenti la luce indescrivibile e che rendevano preziosamente brillante ogni cosa, come parte d’un regno fiabesco senza alcuna impurità possibile… Poi toccò la linea dolcemente ondulata delle colline laggiù, oltre la piana, appoggiandosi all’apparenza, mescendosi con la Terra in una nuova manifestazione dell’unione tra l’elemento terreno e quello celeste, sublime – scendendo ancora, sempre più, scomparendo infine oltre l’orizzonte e lasciando il cielo, fin verso lo zenit, intriso intensamente d’indescrivibili colori, toni e sfumature, mentre nell’altra metà – verso i monti – già le prime stelle, quelle di maggior intensità luminosa notturna, stavano accendendosi ora flebilmente, ma via via sempre con più vigore. La pace più assoluta calò su ogni cosa, come in un immenso teatro dopo una spettacolare e sfolgorante rappresentazione, e solo il canto degli uccelli sulle chiome degli alti alberi restava a musicare tutta la meravigliosa intensità di un momento sensazionale…
Carlo Prumirni sorrise appena appena. L’ombra stava svanendo – ma questa volta con le altre d’ogni cosa, assorbite dalle tenebre calanti; egli si sentì come mai prima in armonia con il mondo, con la vita. Era in vita, nuovamente, non era morto, forse non lo era mai stato effettivamente – biologicamente insomma, chissà: ma lo spirito, ora, era vivo… E come era bello constatarlo!…
Ma non sentiva di dover esplodere in alcun moto di sconsiderata felicità, di giubilo forsennato che un evento incredibile ed assurdo come tutto quello di cui esso era l’ultima manifestazione poteva pure giustificare… Qualcosa di grande, ed estremamente profondo, intenso, immenso era successo, quel giorno: qualcosa oltre ogni materialità, qualcosa di veramente e genuinamente miracoloso, qualcosa per la cui preziosità infinita v’era bisogno d’un nuovo tempo, d’una nuova vita…
Guardò verso la città, le cui luci si confondevano e si sbiadivano nella consueta cupola venefica ora ben più oscura di poc’anzi; mille pensieri, immagini, visioni, comparivano e scorrevano nella mente – alcune nitide, altre meno, in generale confuse, entropiche nei colori, nei toni, nei tratti, come se fossero illuminate da una pallida luce, debole e cagionevole di luminosità – o come ancora egli le potesse percepire attraverso un velo di foschia, estranee, lontane, a guisa di certi ricordi che la ragione ritiene bene tenere a memoria soltanto per evitarne, in futuro, una nuova manifestazione nella realtà… Guardò la sua persona, la figura ormai avvolta nel fosco della dolce sera, si vide come il protagonista di un inevitabile evento, ripercorse tutti i pensieri elaborati fino a  quel punto. Intorno, pareva che il mondo intero restasse in una sorta di sospensione, in uno spazio dal tempo fermo, o certo enormemente rallentato – in una dimensione d’incontro tra ogni essenza formante il principio infinito della vita e della morte; pareva che l’intorno tutto attendesse qualcosa dall’uomo assorto, sembrava che il silenzio diffuso lo ascoltasse, in qualche modo, dacché probabilmente – egli pensò – solo le voci, i suoni, i rumori erano silenziosi, ma non il cuore, non l’anima e lo spirito e gli spiriti e le essenze dell’intero creato… 
Osservò verso la stradicciola sterrata che serpeggiando tra i campi s’inoltrava nel maestoso bosco in fronte e poi oltre, verso le colline, probabilmente risalendone i fianchi, i pendii, salendo alle montagne più alte – salendo verso il cielo, forse, verso le stelle che già a miriadi scintillavano meravigliose nel cielo sempre più cupo e oltre… Forse, ancora oltre…
Egli si tolse con rapide pacche la polvere sul soprabito; lo spiazzo prima sporco d’immondizia ora assumeva un aspetto più decente, o perlomeno più accettabile all’animo virtuoso…
Fece un lungo sospiro, chiuse gli occhi un poco inumiditi da una parvenza di lacrime… Poi s’incamminò, verso il folto bosco; in breve, scomparve nell’ombra.

L’appuntato picchettava la penna sul tavolo di grezzo legno scuro, rovinato sulla superficie da innumerevoli graffi e segni – indeciso, all’apparenza, su cosa scrivere sul foglio del rapporto in fronte, mentre il maresciallo sciorinava le consuete domande del caso. La donna, seduta accanto alla scrivania, pareva svogliata nel racconto, donando l’impressione di avere ben poco da dire – sconcertata ma non troppo, addolorata, ma anche passiva, forse, verso il fatto imprevisto accaduto, al momento incapace di una qualche reazione… Nella piccola e spoglia stanza al secondo piano si sospendeva un particolare lezzo – come al solito, un poco di chiuso, un poco di fumo, e il giovane militare seduto alla scrivania sembrava più attento a comprendere la causa di quell’odore, piuttosto che all’ascolto del racconto frammentato e indeciso della donna la cui voce forte ma irresoluta echeggiava leggermente tra le pareti…
- Mi perdoni, signora, ma continuo a non capire…
- Le ripeto, signor… maresciallo, giusto?… Che c’è da capire non lo capisco nemmeno io, voglio dire… Io non capisco perché mio marito si sia alzato che era notte, forse, o forse le prime luci dell’alba… Sì, mi sembrava che già un po’ di luce… Ecco, però io aprii gli occhi così, poco, tanto per aprirli… Vidi che s’alzava, ma penso di essermi riaddormentata subito, convinta che se ne andasse al bagno…
- Ma per che motivo si alzò, allora, il signor… Prurimmi… 
- Prumirni!
- Che nome strano… Beh, insomma, si sarebbe alzato e sarebbe scomparso così, di botto?
- Io non so… La sveglia certo non suonò… Forse a lui parve di sentirla suonare, anche a me, a volte, mi pare di sentire il suono della sveglia, ma è in sogno, poi mi desto e m’accorgo che è soltanto un’impressione…
Il maresciallo sbuffò, incrociando le braccia e appoggiandosi alla scrivania con il fondoschiena. Poi si voltò, prese il foglio in fronte al giovane appuntato, che osservò il proprio superiore con un’aria di svagata astrusità circa cosa avesse dovuto in effetti scrivere del racconto udito. Ed il foglio del rapporto conteneva ben poco: il maresciallo con biasimo lo ritornò nervosamente al militare, indicandogli con un eloquente gesto che la firma, su quel documento, sarebbe stata la propria, mentre lo sguardo della signora seduta accanto era da qualche momento inespressivamente fissato verso il pavimento.
- Dunque… - riprese il graduato, rizzandosi nuovamente sui due piedi - … Vediamo di riassumere un poco il tutto… Il soggetto, Prumirni… Carlo, si sarebbe alzato alle prime luci dell’alba del giorno indicato in anticipo rispetto all’orario osservato negli altri giorni e senza apparente motivo; si sarebbe lavato, vestito, insomma tutto quello che abitualmente faceva alla mattina prima di recarsi sul posto di lavoro; sarebbe uscito dalla sua abitazione sita all’indirizzo prima citato, indi sarebbe svanito nel nulla… Mai giunto sul proprio posto di lavoro e nemmeno da alcuna altra parte…
La signora Prumirni annuiva meccanicamente, sempre tenendo reclinato il capo verso il basso; l’appuntato si affrettò ad appuntare le parole ben scandite con un tono vocale alto dal maresciallo, finché questi smise la narrazione, e nel silenzio improvvisamente profondo si potè udire soltanto il tenuissimo scricchiolare della penna sul foglio… Egli parve perdersi un attimo con il proprio sguardo nel vuoto del locale, le braccia incrociate dietro la schiena; poi si voltò, adagio, chinandosi verso la donna seduta e distratta, rivolgendosi ad ella con un tono di voce ora fievole, quasi un bisbiglio…
- Signora… Mi scusi se… Lei mi capirà se le chiedo… Non è che ci fosse la possibilità che il Prumirni avesse una qualche relazione extra-coniugale…?… Mi perdoni…
La donna parve ridestarsi improvvisamente e bruscamente dall’apatia nella quale giaceva, coe per un repentino e nervoso scatto d’orgoglio…
- Chi? Mio marito? – disse ella, con una voce finalmente decisa e caparbia, ed accompagnando la reazione con un gesto eloquente della mano destra... – Ah, figuriamoci, un’altra donna!… Ma se quello a momenti non sapeva neanche di essere vivo!…
Il maresciallo si rizzò nuovamente dritto, quasi sorpreso da quella reazione così determinata, allontanandosi d’un passo dalla donna e tornando pensieroso; il giovane appuntato riprese a picchettare la penna sul grosso tavolo, annoiato, lo sguardo buttato oltre l’unica piccola finestra del locale, dalla quale, in lontananza, attraverso il velo bigio della perenne coltre di smog, si poteva intravedere la vaga linea ondulata delle colline oltre la pianura…
La spoglia stanza si colmò ancora di un profondo silenzio.
 

(Calolziocorte, 17 Gennaio 2002)

 

 

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