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Venere
 
 

I.

Vi era un tempo nel quale il viaggiatore forestiero giungeva dalla pianura in vista del nastro argenteo del Brembo se muovente da occidente, o del Serio se da oriente, percorrendo strade taglianti campi rigogliosi, macchie verdissime, colli aulici e soavi nelle infinite linee dei crinali che si susseguivano come all’infinito, a guisa d’invito più dolce a penetrare nella severità rocciosa delle alte montagne alle spalle, verso il nord, ove il cielo si faceva perlaceo e si confondeva con la remota linea lattiginosa delle nevi eterne sui picchi e sulle creste: ed il ghiaccio toccava il cielo, e il cielo quel gelido mantello, e veramente pareva che la realtà toccasse la fantasia, rasentando l’impossibile ovvero un unione metafisica tra la terra e la volta celeste, tra l’umano e il divino, tra l’immanente e il trascendentale.  Pareva che lassù, in fondo alle valli ricchissime e profonde nei fianchi come nelle leggende che vi si proteggevano, l’uomo potesse elevarsi al cielo, toccare i reami stellari, farsi attrarre in essi come nel più soffice giaciglio, e ritrovare finalmente la radice smarrita della primigenia genesi, e il contatto con il sovrannaturale, inteso anche nel suo senso più diretto, ovvero di ciò che “sta sopra” il naturale, come l’uomo stesso stava sopra la Natura, camminava su di essa e sul meraviglioso corpo terrestre.
Su uno di quei colli sublimi anticipatori della maestosità ghiacciata ormai prossima e visibile, varcando i tributari del fiume manzoniano e ancor prima e poi sempre, l’occhio affascinato del viaggiatore vedeva Bergamo preziosa, illuminata della sua stessa luce e del riverbero dell’anima storica, come un simbolo potentissimo della bellezza senza tempo e senza alcuno spazio limitatore, come la capitale splendente di quel regno protoceleste.  Forse con tale spirito di magnificazione le genti primeve che scelsero il luogo sul colle per insediarvi la radice originaria d’una sì grande natura nobile giunsero dalle montagne: gli Orobi, il popolo venuto dagli alti monti che si nomarono poi del valoroso appellativo, forti del sangue gallico che scorreva nelle vene ardenti e della certa coscienza della simbolica potenza astrale, fondarono Berg Hem, la città sul monte, quasi a voler trasportare la magia metafisica dell’incantato tocco tra la Terra e il cielo che giornalmente essi vivevano più in prossimità delle vie ove il tempo scorreva animato dalla vita quotidiana, quasi a fissare nelle prime, elementari realizzazioni edili, nei primi cromlech accennati, nelle pietre rituali puntanti il vertice verso le fulgide stelle l’incanto del gran miracolo naturale, preservandone l’essenza magnifica nella fortezza della pietra e dei leganti, quasi a tentare l’impossibile, il riportare la lontana bellezza dei picchi ghiacciati, delle valli maestose, dei versanti e dei crinali possenti, delle creste vertiginose e di tutto ciò che la Natura intatta aveva voluto donare alla vertiginosa gloria dello sguardo ammirato.
Così la città sul colle crebbe nella gloria elevata e sublime della divina genesi, sotto l’egida magnifica della più gran bellezza e sullo sfondo meraviglioso dei giganti orobici, che nell’impeto di roccia spinto al cielo come l’urlo liberatore e purificatore della Terra stessa parevano custodire in fortezze inespugnabili le anime nobili e antiche dei fondatori celtici, illuminandosi del riflesso solare sulle nevi eterne come del proprio baluginare estasiante, e divenendo essa stessa meraviglioso sfondo per lo sguardo ammirato del visitatore giungente al suo cospetto dalla pianura monotona.  Facilmente la città maestosa mirante il grande piano si costruiva possente l’alone mitico per quanto rivelato, dacché al viandante stanco della piattezza pur limpida e vivace eppure priva quasi della forza naturale appariva subitamente, come in un incanto anelato dall’occhio ricercante una nuova bellezza, la muraglia verde, sinuosa e possente, la Terra finalmente rivitalizzata d’onde splendide e rigogliose come un mare di fiabesca fattura, e dietro, come coste d’una terra promessa sorgente da quel mare miracoloso, la linea sempre più alta dei monti sublimi, i regni delle nevi eterne, dei ghiacci inviolabili: e il pianeta pareva rivivere nel suo massimo vigore, generando la bellezza sognata e primigenia, la grande, infinita grazia della Natura.  E nel centro del quadro stupendo pur degno del miglior Corot o d’un Giovanni Segantini di passaggio per la terra bergamasca, a guisa di gioiello inimitabile, di diamante splendente su una veste regale già di per sé inimitabile, come il fulcro di quel mondo che ad esso solenne orbitava attorno, l’altra linea preziosa delle moli edificate sulle antiche effigi di fango e pietra e paglia si stagliava sul paesaggio d’intorno favolosa, fiabesca, veramente in tutto mitica, simbolo infinito della bellezza generata dalla bellezza, della grazia dalle mille forme, dell’eleganza condensata nei monumentali tratti inestimabili.
Bergamo s’avviluppò allora nell’aura preziosa della sua antica anima dorata, passando attraverso il tempo come l’acqua attraverso una rete dalle larghe maglie, o come la brezza nell’aria vuota del mattino, o come il fascino più grande nel cuore capace di percepirlo pienamente.  Divenne forziere meraviglioso delle grazie afrodisiache, della bellezza sì grande da godere della forza di sconfiggere ogni turbamento temporale, transitando nella sua marcia regale vestita degli abiti fastosi dell’officiazione mitica, del rito la cui celebrazione quotidiana, eterna, rinnova l’alone fascinoso come quell’acqua rinnova la sua purezza ad ogni salto zampillante tra massi e cigli scoscesi.  E le cime lontane pareva volessero difendere col massimo impeto della forza immane di roccia e di ghiaccio protesa nella cerchia maestosa allungata nell’intorno il gioiello inimitabile, ben sapendo la Natura comprendere come tra le vie cinte nei muri favolosi fluisse palpitante e inarrestabile il gran miracolo umano, il dono di menti virtuose e illuminate sì da generare un tesoro sfarzoso e in perfetta armonia col mondo dominato al cospetto; e tra le mura altissime e scintillanti in alto, altre mura ponevano a contrasto d’ogni attacco alla bellezza difesa i bastioni possenti e invitti, i fossati ove confluivano le speranze disilluse degli assedianti vili, le balze di squadrate pietre tanto alte da risultare veramente come un tremendo ambito montano vasto di pareti invalicabili trasportato e ivi posto dagli alti reami a innalzare ancor più il mito cittadino e la sua invincibilità virtualmente eterna.  Proprio come apparivano ad Ettore Benaglio quel mattino in cui esse si gettavano a capofitto nel dominio della pianura rimembrando i favolosi e celati reami nordici abitati dai terribili giganti sullo sfondo ancor più lontano della rarefatta catena alpina, così si ponevano allo sguardo meravigliato del viaggiatore prossimo alla meta bergamasca, tracciando sulla rigogliosa terra antica e generosa il confine d’ingresso dal mondo piatto e noioso a quello nella grazia del cielo e della Natura e della più nobile anima umana, un mondo d’arte altissima ovvero d’altissima bellezza.
Quel tempo d’incantevoli visioni, di stupefatta ammirazione di tale inimitabile, ineguagliabile bellezza, quindi, così fu nel passato, è nel presente, e sarà forse ancora per lunghissimo tempo nel futuro.  Così fu fin dal tempo dei Romani, che i primi edificatori scacciarono latinizzando l’originario toponimo; così fu nel tempo delle calate dei Barbari invasori, quando la cinta ancora non era invincibile e la città subì l’onta del fuoco distruttore del feroce Attila, unico sfregio alla bellezza stupenda; così fu quando Venezia estese il suo pacifico dominio sulle terre bergamasche, quando da lo prato de santo Asander il viandante quattrocentesco accoglieva nello sguardo ammirato la Citadela, lo Palazo, la Tor e S.M.Majore e la Roca; così fu quando Pierre Mortier la incise nel settecento come ripresa da un fantomatico mezzo volante ancora di là da venire.  La preziosità aurea e inestimabile luccicava preziosa quando il Lotto riportava l’artistica genia della sua illuminata mente attraverso sublimi tratti pittorici all’occhio del tempo; quando il Tasso passeggiava assorto nella ricerca del divino brillio dell’ispirazione giusto a lato di quelle arcate ove oggi il turista ammira la sua effigie scolpita, e quando parimenti il Donizetti già melodiava le sue magnifiche arie liriche osservando nella mente la sua Lucia di Lammermoor passeggiare nei giardini della Rocca; o ancora, quando il prode Antonio Locatelli se ne partì dalla città divina, immagine d’Olimpo possibile, col suo uccello d’acciaio, ripercorrendo le vie dedalee tracciate nel cielo azzurro con il tratto del sogno più puro, come sospinto dalla gloria della sua terra favolosa nella bellezza infinita della volta celeste che pareva riflettere nelle stelle candide e fulgenti più che gioielli fiabeschi quegli altri gioielli monumentali sparsi con la grazia unica di Venere tra le mura possenti.
Quale immensa magia aveva donato la magnifica dea alla città antichissima, la dea la cui stella brilla nel mattino limpido e nella sera crepuscolare d’una luminosità meravigliosa e imbattibile per tutti gli altri astri, vertice massimo di bellezza cosmica a simboleggiare perfettamente la massima bellezza umana di cui porta il magico nome, fulgida come il più gran diamante, dorata come una lacrima commossa dell’Universo colmo di passione, raggiante come la bellezza più grande raggia nell’intorno la sua aura di irresistibile fascino?  Quale mitico incantesimo Bergamo poneva nei cuori d’ogni suo visitatore, d’ognuno che passeggiasse per le sue vene lastricate, sì che ogni cosa pesante della vita si rendesse leggera nella leggerezza della grazia così smisuratamente proferita?  In quale subitanea fiaba l’ospite varcante le mura invincibili si trovava a muoversi, a respirare, a vivere?  Nel polmoni attraverso le volute aeree pareva penetrarsi il mito, negli occhi il sogno, sulla pelle come infinite carezze d’una entità inconcepibile, impalpabile, invisibile, un’entità di grazia infinita ed eleganza suprema che nient’altro era se non l’anima stessa di Bergamo, fattasi come un’essenza vivente per grazia delle sue storiche virtù, per la forza evocatrice delle sue leggende, per l’aleggiare degli spiriti nobili che nei tempi passati l’abitarono e la pregiarono delle proprie opere di vita disegnando nel cielo ammirevole di corindonica passione l’alone del mito fulgente ed eterno.
Ecco il grande incantesimo!  Ecco la pregiatissima magia che rendeva la città sul colle come la trasfigurazione magnifica della mitica dimora olimpica, con il colle disteso al dominio della pianura come l’Olimpo che le anime elleniche miravano da lontano ed al quale portavano gli aneliti, i sogni e le suppliche per la vita, al quale s’impegnavano di far giungere l’eco dei riti officiati, delle celebrazioni dedicate, d’ogni manifestazione di preghiera appassionata, ai quali abitanti essi si rivolgevano nei pensieri quotidiani alla ricerca del consenso divino per i moti della vita, le azioni, le opere e di ciò i frutti.  E veramente in ogni mortale giunto al cospetto della cerchia possente e dei monumenti in essa difesi l’anima annunciava il gran miracolo all’inconscio, il miracolo della bellezza immensa ed eterna, nella città simboleggiata sì preziosamente come forse in poche altre locazioni nell’intorno limitato del mondo tutto.
 

II.

E l’occhio attento la cui anima guidava con più perspicacia pure per sentieri favolosi di sogno e d’incanto sentiva l’impulso giungente dal cuore di ricercare veramente le dimore divine tra le vie bergamasche, e tra tutte quella che oltre i bastioni possenti ed invitti pareva potesse trovare miglior collocazione: la beata magione della dispensatrice della mondiale bellezza e di ogni sua grazia, la Venere sorella gemella di colei procreata dalla afros che le gocce di sangue di Crono generarono nell’ondoso mare di Pafo, ovvero la figlia di Zeus e di Dione di Dodona che anche il cieco Omero cantante delle gesta di Enea ci indica come progenitrice.  E l’incanto immenso pareva bisbigliare al cuore appassionato che l’intera città era stata magicamente eletta a dimora della meravigliosa dea e scrigno conservatore di ogni sua grazia, che tra le moli incantevoli ella divina vivesse la quotidiana sua esistenza sovrumana sì pregna di virtù favolose, infuse poi ad ogni cosa che tra i bastioni s’innalzava preziosamente: nell’acropoli orobica, la magnifica sua aura ammantava l’ogni dove, porgendo all’occhio ammirato le doti dell’incanto più profondo e al mondo intero il più gran significato della bellezza, che nello scorrere per le vie a guisa d’un plasma sublime donava allo stesso magnifico borgo come l’essenza d’un entità super-divina, tramutatasi nelle membra sue in forma di torri, palazzi, dimore sacre e profane, cinta da un’epidermide possente d’altissime balze e bastioni, e pulsante d’un cuore d’arte e di emozione virtualmente ineguagliabile.
Come in Venere/Afrodite, agli occhi del nobile popolo ellenico e di quello voluttuoso romano, s’incarnavano nel più grande fulgore gli ideali di bellezza, amore, fecondità e sesso, nonché le immagini sacre dell’Alma Terra madre universale, di Androphonos ovvero colei che uccide gli uomini, di Epitymbidia ovvero la Signora delle Tombe, rendendola forse la vera regina dell’olimpico ambito, nella sua immagine vi trovava confortevole rifugio ogni elemento d’estetica grazia, naturale ed umano, carnale e della psiche; vi si rispecchiava la dea madre mediterranea ed indo-ariana, l’Ishtar semitica e la Hathor egizia; essa era Urania e Pandemos, come ricorda Platone, ovvero simbolo dell’amore celeste ed insieme di quello terreno, duplice come il fulgente astro che da ella prese non già la tenebrosità notturna, ma la lucentezza ignea del desio, come Espero nel cielo occidentale, e la limpidezza aurorale come Lucifero nel cielo orientale.  E v’era incredibile duplicità persino nella primeva natura, dacché la genesi anadiomene dalle onde di Pafo rivela possente l’originaria essenza profonda della divina, ovvero il principio della sensualità, dell’attrazione sessuale e della generazione; ma, nell’incanto meraviglioso dell’afrodisiaca costituzione, vi si rivelava pure un elemento di verginità, l’attribuzione più piena al concetto alto di femminilità sì da rendere infine perfino drammatica l’offerta sessuale che ella situasse nella gran forza di seduzione posta ad offerta dello spasimante.  Quindi la voluttà sessuale insita nel corpo divino assumeva una prospettiva di rivelazione ultraterrena, levandosi da ogni emozionalità gretta e lasciva per accrescere ancor più il mito luminoso, e nella duplicità rivelata i due aspetti contrapposti vi si mesciavano nel creare lo splendore d’uno spirito assoluto: la dea bellissima, forza primordiale della Natura riassumente in sé ogni cosa fregiabile di grazia e bellezza, nel pantheon olimpico si faceva come dell’essenza divina l’anima genuina, lo spirito puro e meraviglioso, il cuore palpitante e fremente d’emozioni e di fascino preziosi e istintivi, e la dimora sua olimpica baluginava nell’aura dorata ove si spandevano queste essenzialità veramente divine.
Per grazia di tutto ciò, la meravigliosa dea non poteva che risultare il reale fulcro della realtà mitizzata ellenica e latina, colei che ricevesse le maggiori e più appassionate attenzioni rituali, colei che porgeva il dono dell’amore fattosi grazia procreatrice nel popolo adorante e quindi forza fondamentale per la sussistenza dello stesso, colei che sapeva essere la fonte divina dell’emozione più grande che essere mortale possa sentire dentro, il fremito che ogni senso eccita e soddisfa ovvero la bellezza che l’oro del piacere sparge nella mente attenta ad essa, che pone nel mondo infiniti suoi simboli generanti la grandezza assoluta dell’arte primeva, la Natura meravigliosa ovvero la originale soddisfazione dei sensi dalla quale si genera il moto nobile dell’uomo, l’arte vitale preziosa che in fondo, forse, pone l’umanità intera su quello scalino tanto vantato al di sopra del restante regno animale, più che la parola, più che il moto logico, essa come il frutto massimo dell’intelletto e della vita stessa.  Ecco allora la divina Afrodite nell’ombra della sua lucente stella e dell’avviluppo igneo d’un tramonto stupendo o nella corona aurea d’un aurora baluginante erigersi a reale perno d’un mondo intero e d’una intera storia, la storia dell’uomo, i suoi più nobili desideri, le sue più appassionate necessità: più che ad ogni altra entità sovrannaturale, ai magnifici dei olimpici o di qualsiasi altro pantheon mitologico, più che alla più sublime personificazione ultraterrena che mente umana abbia concepito, ad ella giungevano le preghiere più sentite, i più accalorati aneliti, i più vividi tratti dei sogni mortali tessuti nella forza del desiderio, e da ella s’aspettavano nel fremito più ansioso le risposte volute, anelate, sognate negli ambiti dell’impossibile.  La sua essenza era ed è veramente onnipotente e onnipresente, e infine veramente immortale, certo assai più che tante altre di pari nobiltà vestite nel corso del tempo degli aurei tratti più sacri; un’essenza palpabile, in mille e mille modi, fin che la mente anelante si spinga con la forza del desiderio e del sogno: ovunque ci sia bellezza, amore, desiderio, quindi arte, e poesia di vita – la vita nel suo massimo ardire possibile – ella v’é. 
Se quindi l’anima passionale e ardente già ricercava nella spinta dell’inconscio estetizzante la presenza divina tra le mura bergamasche, lo sguardo estasiato di Ettore Benaglio vedeva ella, sentiva sulla pelle fremere la potente vibrazione di bellezza infinita, conscio d’essere in quei frangenti negli ampi saloni preziosi della magione afrodisiaca: udiva in sé e attorno a sé la palpitazione di quel cuore meraviglioso, donde vibrante si generava l’impeto stupendo di grazia che la dea domiciliata donava all’intorno.  Parevagli veramente che nessun altro luogo nell’intero creato, in quei frangenti appassionati, potesse rivestirsi sì magnificamente delle virtù d’Afrodite, e si sentì come nel cuore dell’Olimpo, parte vivente d’una bellezza infinita pure oltre i soliti ambiti di vita: nella mente vinta da tale grazia incantata si creava facilmente il parallelo fantasioso, la cittadella divina superba sul più alto monte ellenico a dominare la pianura e le cose mortali, in essa la cerchia preziosa delle sovrumane dimore, e ancora all’interno la magione beata, simbolo di bellezza assoluta tra siffatta magnificenza, e infine tra le mura appassionate la magnifica dea, ultima bellezza, vertice massimo, margine finale e sublime oltre cui solo il buio del silenzio, e il silenzio del nulla; similmente, l’antica città nobile e invitta sul colle arioso tra il piano e la cerchia immane di roccia e ghiaccio, e di essi austera e gaudiosa dominatrice, in essa la magnificenza artistica di meravigliose moli che mani illuminate innalzarono nel corso del tempo verso la gloria dell’azzurro più puro, e all’interno il cuore palpitante di bellezza del borgo favoloso, i muri più preziosi nell’avviluppo quadrangolare veramente come d’una dimora d’assoluta magnificenza ove l’arte si fa vita e la vita arte, ed entrambi poesia fondamentale sotto il cielo di corindone offerto come tetto incredibile…  E dentro, come ultima bellezza afrodisiaca negli occhi, nella mente e nel cuore appassionati ed estasiati di lui, lei, Martina Bezzi, Venere perfetta e assoluta, illuminante splendidamente la nuova via vitale che nell’oro prossimo egli vedeva in fronte come l’antesignana divina splendeva sulle vite degli animi nobili sospinti all’ammirazione della vera arte e al godimento genuino dei più elevati moti d’amore, nella stupenda piazzetta del Duomo come tra le mura olimpiche, simbolo di bellezza interiore e parimenti esteriore protetta tra possenti pietre come altrettanti simboli d’una grazia magnifica e virtualmente inarrivabile, perfettamente integrata con quei frangenti di giubilante sogno ove Ettore sentiva di muoversi, con ogni moto come ripetuto all’infinito da una volontà pregna dell’essenza d’ogni attimo e del suo godimento, mirante solo e col massimo vigore a vivere della stessa aria pura che ella respirava nella delizia immensa dell’unione raggiunta, ed incidere nella mente soffice il ricordo indelebile, quello che in sé sempre conserverà il fremito dell’emozione più pura.
 

III.

Nel gran cuore della città i due giovani ardenti si trovavano uniti, nello spazio pulsante di grazia eterna che custodiva l’intero tempo del magnifico borgo, come chiusi nell’abbraccio delle mura nobili e indescrivibili ove possente echeggiava l’onda pulsante dell’amore infinito, sospinto al cielo dall’onnipresente bellezza che nel luogo meraviglioso veramente pulsava come un cuore d’artistica carne, da cui fluiva il preziosissimo plasma estetico che in ogni dove si spandeva per la città elevata donandole quell’anima sì palpabilmente soprannaturale, divina.
Una soffusa e luminosa atmosfera di sogno s’era formata tra gli antichi monumenti, pareva che tutto s’elevasse sul resto del creato, le pietre magiche, le moli possenti e leggiadre, le torri protese alla volta splendente, i selciati che conobbero i calzari di infiniti uomini di grandi e piccole virtù; i corpi, gli animi, i cuori, i pensieri e i sogni e tutto ciò che oltre il conscio umano viveva una vita duplice, nella dimensione ove il fato conosce la concretezza della conoscenza immediata, ove il mistero si svela all’occhio dell’anima, ove il semplice, carnale moto cardiaco si spande, si trasforma in melodia d’onde emozionali capaci d’oltrepassare ogni virtuale ostacolo, intessendo dialoghi con qualsiasi altro cuore e qualsiasi altra essenza, completa di vita come normalmente intesa oppure completa d’una vita sovrumana, senza moto eppure con mille moti come era quella della città solenne, creatura meravigliosa dal cuore battente sopra tutto: il corpo pareva fondersi con l’intorno, tutto farsi sorgente di luce e di purezza, in ogni cosa correva veemente come un fiume in piena dopo rotti gli argini l’energia universale, la forza primeva che generò e conobbe l’originaria luce scoccata dal nulla e che vedrà la stessa spegnersi nell’attimo ultimo.
Nel cuore cittadino come in quello del giovane sedotto la bellezza conosceva quindi la bellezza, da esse si generava altra bellezza come in un meraviglioso incantesimo, e ad Ettore Benaglio scorreva nel corpo quell’onda imponente che elevava l’essenza interiore verso i lidi assoluti e incogniti dell’arte vitale, verso la vita come vera e perfetta poesia, verso il vertice anelato ove la bellezza divina riconosca l’uomo ardente nell’animo come proprio figlio.  Tutto tra i muri storici e favolosi s’intrecciava a formare il magico reticolo della più assoluta grazia avviluppante, tutto contribuiva a generare come un sofficissimo giaciglio emozionale ove languire indefinitamente era la massima aspirazione, e godere delle carezze afrodisiache spandenti il dono dell’amore sui corpi madidi di sensualità illimitata.  Respirava profondamente, sentiva egli il cuore accelerare subitamente i battiti e poi come autonomamente controllarli, calmarsi, in un infinito susseguirsi di vette d’ardente e voluttuosa emozione seguite da ampi avvallamenti di tranquilla incoscienza, col corpo privato d’ogni energia materiale per accogliere la più nobile energia spirituale, che egli riceveva dall’intorno, dalla città e dalla sua anima, dalla Natura e dalla sua primeva bellezza,  e da lei, dalla sua propinqua presenza, dal battito del suo cuore armonico con quello di lui, dal tepore che la meravigliosa pelle emanava come fosse d’una stella egli in orbita, rapito nell’attrazione tenue e insieme irresistibile e nella mitigata luce dolcemente fibrillante di mille scintille di gioia, sensualità, voluttà e desiderio.  Tutto il bellissimo intorno pareva riflettersi nella di lei indicibile figura, e di contro ella, il suo fascino, alle maestose pietre tornava come per opera d’una riflessione sublime, come una stella nella stella, in un circolo d’eccezionale grazia nel quale egli era soavemente immerso, stordito ed ebbro, come Oisin figlio di Finn rapito nell’incantato regno delle Fate di Tir Nan Og, “il paese più delizioso e celebre che si possa trovare sotto il Sole”… 
Chiuse un attimo gli occhi; sentiva scivolare nei polmoni, sulle volute dell’aria fresca e leggermente mossa, il dolce, tenue profumo di Martina accanto: nelle narici esso si faceva puro fluido vitale, necessario ad ogni pur minimo moto, fondamentale dacché tramutato in quella fresca aria stessa, come se l’intero mondo fosse avvolto dal delicato e impalpabile velo profumato da ella generatosi: ciò ancor più aumentava in lui la meravigliosa sensazione d’essere in un nuovo mondo incantato ove la bellezza e solo la bellezza regnasse incontrastata sotto la salvaguardia della divina e duplice protettrice, che nell’incanto d’un sogno letteralmente incredibile s’era fatta donna accanto a lui…
L’indescrivibile sensazione che nel corpo tutto pulsava ardente poneva egli nel credere di godere di quell’assoluto ed elevato stato artistico che nel corso dell’intera storia dell’uomo, in attimi di gloria irripetibili e d’armonia perfetta di semplici animi con l’Universo tutto, fluì in corpi e menti illuminate dalle Muse stupende e preziose, sì che essi fremessero con soavità e pari vigoria della preziosa virtù di scorgere veramente la bellezza, condensata in visioni subitanee che in un attimo fuggente s’impadronivano dello spirito umano, e di essa raggiungerne la cognizione ideale, e infine di sentire nel corpo eccitato dall’improvvisa energia subliminale l’impulso geniale alla generazione artistica del simbolo di tale grazia che nella mente si originava vigoroso nel vortice dei pensieri, un’immagine, una creazione, una prova finalmente tangibile della grande forza estetica che l’Universo intero permea: pareva in sostanza ad egli di vedere con gli occhi e di palpitare col cuore dell’ignoto scultore ellenistico che, illuminato dalla dea magnanima e ispirato appunto dalle Muse leggendarie, scaturì dalla roccia quella perfezione artistica che oggi nominiamo Venere di Milo; o di colui che altrettanto ispirato generò l’Afrodite Anadiomene che oggi acefala si conserva nell’antica capitale imperiale latina, o di Niccolò detto il Tribolo e Baccio Bandinelli, del Giambologna e del Canova i quali parimenti s’illuminarono della gran virtù afrodisiaca sì da lasciare ai posteri esempi purissimi della gloria magnifica; ed ancora, egli sentiva nei polsi, nelle mani e nelle dita tutte come la scintilla elettrizzante che spinse spiriti antichi a guidare le stesse proprie e fissare su tele fortunate o su mura propizie la meravigliosa grazia anadiomene: il Botticelli, Raffaello Sanzio, il Veronese e il Tintoretto, Tiziano Vecellio e il Bronzino, Jan Liss e Giovanni Battista Tiepolo, e tutti gli altri nobili fautori d’arte immortale, creature ispirate dall’arte suprema nella concezione artistica d’una vita superiore, utopica perfino nell’essere perfetto simbolo di bellezza, lasciata a testimonianza dei posteri nei tratti delicati oppure possenti di figure meravigliose: novelli sacerdoti di Venere, suoi adoratori e suoi apostoli nel corso dei secoli, grazie a cui oggi il mondo intero può dirsi più nobile e meno gretto di molta della stirpe umana che ne abita le terre inquinandole d’ogni bruttura.
Come in una virtuale collezione inestimabile, quelle immagini d’artistica grazia scorrevano nella mente eccitata illuminandone gli ambiti sognanti, manifestandosi nella grazia immane e infine proiettandosi nell’essenza sublime sulla realtà circostante: l’estetica suprema di quelle effigi immortali egli sentiva fondersi nella sua essenza interiore, e gli occhi pareva vedessero come da quella favolosa realtà parallela, di traverso un velo soffuso di grazia superiore; nell’aprire le palpebre e gettare lo sguardo accanto, come se le palpebre  si chiudessero sulla realtà e si riaprissero nella visione d’un sogno, egli rimirava la divina protagonista di quell’arte suprema in fronte a sé, incredibilmente apparsa in virtù d’un miracolo indicibile come il frutto meraviglioso d’un incantesimo virtualmente sfuggente ad ogni batter d’occhi ma infine reiterato in una immane esplosione d’interiore ed esteriore felicità; sentiva in sé come la gioia del raggiungimento d’un vertice assoluto di vita, di bellezza, di passione e d’amore, e nella magia del momento mirava l’intera città riflettere lo stesso gaudio e la stessa passione, come se traspirassero vividamente dalle pietre rese calde di vitalità ardente dall’inondante sensualità in fremente moto: per ciò, in ogni nuovo attimo di sogno, si faceva sempre più intenso nelle immagini il reame incantato che le mura cittadine proteggevano in sé, la cui aura gloriosa si dipartiva d’incanto dalla piazzetta aurea ove i due giovani vivevano l’idillio più grande, essi il fulcro della passione nel fulcro del mondo.
 

IV.

Lo spiazzo illuminato da siffatte luminosità, quella naturale armoniosa e tenue, quella artistica dei favolosi monumenti d’intorno e quella generata dalla passione veemente scaturente dai cuori approssimati, glorificava il trionfo dei sensi offrendo la sua più gaudiosa immagine: come gioielli inestimabili, le dimore divine scintillavano al cielo nei profili perfetti; nell’apparente disarmonia dello spazio sì variegato da simboli d’epoche diverse, correva in realtà la storia intera sublime dell’antica città celtica, e il tempo pareva scivolare in un circolo ove ogni punto fosse in moto e insieme immobile nello spazio, in una dimensione che ogni bruttura possibile pareva annullare sì che il dominio della bellezza trionfasse eterno. 
Sopra d’essi, come lancetta o gnomone di quella ruota temporale avulsa dal tempo corrente e simboleggiante l’imperitura bellezza, abbracciato dagli sguardi ricolmi della stessa avvenenza appassionata ed ammirata di Ettore Benaglio e Martina Bezzi, nel cielo d’oro e di zaffiro prezioso più che un velo di perfetta fattura proveniente da Samarcanda, si stagliava nella meravigliosa silhouette il dono ispirato dell’Amadeo al prode e invitto Bartolomeo Colleoni, quella cappella che nelle anguste misure sapeva racchiudere lo splendore d’un gioiello unico, inimitabile, d’inestimabile valore, un preziosissimo Nassak di pietra tornita la cui punta pareva indicare il reame celeste ove ancora ed eternamente palpitasse di passione l’anima nobile del grande guerriero.  E nella vista soverchiante del monumento sublime, la di lui fantasia ancora viaggiava nell’immane oceano del tempo, come un’agile natante in cerca d’un approdo glorificante presso terre ove il ricordo divenisse virtù, sì da immaginarsi quasi vividamente il possente condottiero e il geniale pavese, già noto nel suo architettare attivamente la Certosa e il Duomo di Milano, preso a parte sul lato della piazzetta giusto nell’ombra della possente torre civica, e partecipato alle idee del prode bergamasco, al suo fantasticare negli ampi gesti rivolti al fianco della basilica di Santa Maria Maggiore la forma immaginata e desiderata, teso ed assorto nell’ascolto delle volontà artistiche del nobile committente, e forse già col pensiero generante una qualche idea, un qualche abbozzo di progetto, ancora rarefatto tra mille diversi pensieri, tenue come un sogno vivido al risveglio eppur così presente, già delineato nella mente vivace, già ispirato dalla virtù afrodisiaca in manifestazione…
Chissà se anche l’Amadeo si poté rendere conto che l’opera progettata ed edificata godeva delle più alte e splendide grazie d’Afrodite, e partecipava basilarmente all’elevazione sublime dell’anima cittadina verso i lidi della bellezza eterna!  In fondo, anch’egli altro non fece che porgere alla visione incantata dei posteri una ulteriore immagine della divina anadiomene, certo priva dei tratti meravigliosamente umani e soavi delle opere dei grandi del passato, eppur nel nobile profilo preziosamente edile svettante ardito al cielo orobico similmente v’era quell’essenza divina, l’assoluta bellezza, l’infinita grazia, fors’anche gli stessi tratti meravigliosi tramutati in nuove linee d’ardimento estetico: ciò non era che l’effetto ulteriore dell’anima sovrumana e magnifica di Bergamo su un’anima mortale capace di recepire il messaggio fondamentale della raggiunta bellezza imperitura, con la prima capace di rendere l’immane avvenenza artistica custodita allo sguardo della vivace mente richiedente con i suoi più alti simboli e significati tangibili, rendendo prezioso come oro il pensiero più semplice e l’emozione più solita in essa scaturenti: e l’architetto pavese sentì certo fremere l’inconscio suo del bisogno di ritornare tale preziosa virtù alla fonte sublime originaria, e non tanto fece dono della sua genia al nobile condottiero e alla sua genealogia, bensì alla città gloriosa, alla gente bergamasca tutta e all’intero mondo.  E veramente pura bellezza s’animava magicamente nella policromia della facciata snella e insieme poderosa che la piazzetta rendeva preziosa come la maestosa sala del trono della dea sublime: da dove essa s’innalzava verso l’azzurro come un gioioso grido di chiamata e di difesa della bellezza mostrata, traeva stupenda genesi il mirabile esempio di poesia fissata nel tempo immutabilmente nelle forme eccezionali, e un’energia infinita che possente si manifestava nel cuore aperto alle gioie reali e pure della vita come un fremito gaudioso, una sensazione d’indefinibile felicità, e di connessione con l’essenza profonda del creato tutto.  Dallo zoccolo ove i bassorilievi alternano con delizioso gusto umanistico raffigurazioni delle storie di Ercole con episodi della Genesi; dal frontespizio marmoreo ove l’intricato disegno policromatico e geometrico perde nell’insieme la sua virtuale complicatezza per divenire magicamente etereo quasi, leggero, sublime e soffuso come un coro di voci bianche, come la damascatura d’una veste regale, come una favolosa reggia capace di custodire in essa l’anima più grande, viaggiando attraverso il tempo ed anzi infine soggiogandolo al proprio volere di vittoria e di trionfo sullo stesso; dalle torniture delicatissime come vetri artistici di Murano delle cornici, delle aperture e dei profili della facciata fino alla loggetta di bifore, perfetta più che un pizzo d’inimitabile fattura, posta come ad alleggerire l’insostenibile grazia estetica dell’insieme, creando quella fascia di vuoto oscuro che dona al tamburo ottagonale della cupola cuspidata quella agilità architettonica di cui altrimenti avrebbe potuto difettare, e alla sottile guglia appuntita che definitivamente slancia l’intera figura preziosa a raggiungere quell’armonia di proporzioni sì sublime da rientrare con pieno merito nelle opere massimamente simboliche d’un epoca florida di realizzazioni geniali: il meraviglioso monumento godeva e gode di quella vita sovrumana che anima l’intera città, che fluisce per le vie, tra i palazzi antichi, che alita la sua grazia nella leggerezza della sottile e fresca brezza discendente dai colli fino ad avviluppare quelle anime capaci di porsi in contatto con l’essenza del borgo nobile palpitante d’energia estetica ed estatica totale.  Così protetta nel fianco della massiccia basilica, come volle lo stesso Colleoni e per la cui realizzazione s’abbattè la vecchia sacrestia sì che la facciata meravigliosa nobilitasse l’angusto spazio racchiuso tra il Duomo, la basilica stessa e il palazzo della Ragione, ella conservava tra le mura sublimi e bellissime il luogo ultimo terreno del grande guerriero e della figlia, nella profusione della genia pittorica del Tiepolo sulla cupola e ancora dell’Amadeo nelle tombe dei due trapassati, facendosi carico dell’arduo compito di sconfiggere ancora una volta il tempo e la sua più grande alleata, la morte invincibile, generando un ambito di gioia meravigliosa ove altrimenti la tristezza avrebbe regnato, e ancor più contribuendo a immortalare l’anima prode del grande bergamasco nel ricordo pur vago dei posteri tutti.
Così, veramente, se del reame orobico favoloso Bergamo era il centro assoluto, e della città sul monte la piazzetta era il cuore palpitante d’arte e custode della più grande bellezza, la cappella del Colleoni di tutto era il centro unico, il fulcro fondamentale, l’anima sublime e leggiadra, la sorgente della grazia che per la città si spandeva con sì grande magnificenza.  Ed è emozionante che il gioiello massimo dell’arte cittadina e orgoglio d’ogni bergamasco, simbolo assoluto di vitale bellezza generata da anime la cui vita poteva ben dirsi altrettanto nobile, è in realtà un mausoleo sepolcrale, un monumento funebre conservante in sé, virtualmente, l’aleggiante spirito oscuro della fine d’ogni ambito vitale; eppure, nuovamente l’incantesimo incredibile si manifesta, la realtà s’unisce alla fantasia e al sogno, tutto si tramuta nel trionfo dell’indicibile armonia madre d’ogni cosa bella: il cuore di Bergamo mesce la vita e la morte, come identiche sorelle al cospetto del tempo inarrestabile, l’una generata dall’altra, l’una come seguito dell’altra e l’una come parte dell’altra, indissolubile, certa, inevitabile.  Ma la grazia artistica smagliante prodotta dal monumento prezioso sublima ogni aspetto crudo del confronto, spiritualizzando il corso vitale in una unica espressione di bellezza trionfante su ogni cosa, e infine persino sul tempo fissato nell’attimo dell’edificazione in un messaggio di potenza estrema. 
Ettore Benaglio si sentiva in una tale armonia con quell’intorno d’incanto magico e meraviglioso, con tutta la vorticosa girandola delle emozioni e dei ricordi che le pietre preziose generavano ad ogni istante, con il fremito dei sensi che s’interscambiava continuamente con l’esteriorità incantata, e con il battito di vita cittadina che ogni cosa animava di pura bellezza, da percepire il corpo come fondersi con il mondo al cospetto, come scindersi in infiniti atomi per unirsi indissolubilmente con la meravigliosa manifestazione di grazia che si trovava a vivere.  La sublime distorsione della realtà verso lidi di infinita voluttà estetica generava perfino una sorta di sdoppiamento della coscienza interiore e dello sguardo incantato, come se il corpo si dotasse d’una doppia vista, l’una verso gli incanti della bellezza mostrata, l’altro indagante di quella bellezza l’essenza pura e meravigliosa: tutto si faceva luce abbagliante, oro nell’oro e diamante nel diamante, il mondo si scomponeva in mille e mille balugini dagli straordinari colori, ed ogni tonalità eccitava i sensi in maniera fremente e varia; un universo di infinita avvenenza superiore si intersecava con la realtà del presente, sovrapponendosi, generando uno stato interiore d’impossibile delineazione, esteriore come interiore e comunque profondo nell’animo come mai mente umana avrebbe potuto immaginare.  La luce meravigliosa avvolgeva tutto come nell’apoteosi del più infuocato tramonto vissuto assurdamente nel suo centro, come una volta celeste d’oro abbacinante sulla quale fremessero saettanti dei nembi ancor più luminosi, generando la visione d’un eden virtuale magnificamente stordente.  Poi, quello stesso impeto illuminante sì vivido negli occhi prendeva ad addensarsi, ad avvilupparsi sulla realtà mirata, a condensarsi come in una forma sublime: a guisa di cumuli che nel cielo del desio, sospinti dal vento in quota, montano in vaporose moli dapprima indistinte, poi acquisendo per brevi frangenti forme fantastiche che nella mente osservante guadagnano le fattezze d’entita oniriche, la magnifica luce acquisiva una forma, dei tratti vividi, non più rarefatti ma assai concreti, lineamenti come tratti da un sogno per concretizzarsi magicamente nella realtà, frementi d’ogni più alta emozione e generanti la sensualità più pura: e nella luce si condensava totalmente la bellezza di quell’ambito favoloso, e dalla bellezza sorgeva lei, Martina Bezzi, veramente come immagine purissima e divina di tutta la grazia trionfante negli occhi di Ettore.
 

V.

Come in un processo di trasformazione e di generazione d’una grazia e d’una avvenenza sempre superiore, dalla mitica città e dai suoi gioielli mesciati nell’incantesimo sublime con l’anima ardente e appassionata del giovane spasimante ella s’elevava ad essere il vertice finale, l’elemento ultimo e fondamentale per l’idillio completo che tutto rendeva come parte d’un mito d’amore e di bellezza: Martina Bezzi figurava realmente come la novella incarnazione delle grazie di Venere/Afrodite, divina nella sua essenza e divinizzante il nobile borgo tutto, fulcro dell’anima d’arte e di vita che di lì s’innalzava verso la gloria celeste.
Egli l’osservava con gli occhi ricolmi della bellezza d’intorno, e parevagli che niente al cospetto resistesse pur nel fascino antico sprigionato: neppure la stupenda dimora della dea meravigliosa, pur nell’incanto del suo fulgore d’arte, poteva parer superiore alla inarrivabile essenza custodita: nell’insieme semmai essa compendiava definitivamente il trionfo estetico e sensuale, generando tutto quanto egli si sentiva possente nell’animo.  La sua figura si stagliava sugli antichi monumenti come Espero si staglia nel cielo serale e Lucifero in quello aurorale, con quello splendore assoluto, indescrivibile, energizzante: e i di lui occhi si deprimevano nel dolore, quasi, per non poter senza fatica estrema reggere tale immensa espressione di bellezza, e con essi il cuore e l’anima sanguinante di passione; nei lineamenti fini si condensava l’Universo intero, essi erano i confini ed i limiti d’una realtà intrisa d’avvenenza all’inverosimile, ed il fuoco purissimo che in ella ardeva non poteva che essere la generazione della potenza ultima delle stelle del cosmo tutto, la cui lucentezza ignea si rifaceva nel corpo sublime tramutandosi in luminosa, irresistibile voluttà.
Similmente agli occhi suoi, il corpo tutto di Ettore si scuoteva in quella parte di dolore che sempre la più grande felicità porta seco, dacché l’immensa gioia che disconosce il dolore è come il giorno terrestre fatto solo della gloria del Sole, o della soavità della Luna: e la pena situata oltre il vertice massimo del gaudio completo contribuiva, in fondo, al trionfo dello stesso, ponendo in vista dello sguardo spirituale la grandezza immensa di quella passione, certo magnifica nei suoi tratti onirici ma altrettanto stupendamente concreta nella sua essenzialità reale; inoltre, concedeva al corpo appassionato la virtù di non abbandonarsi mortalmente nel vortice della passione estrema e ultima, che in quanto tale conserva in sé quel latente elemento di sinistra tragedia paradossalmente utile alla definizione d’una gioia pure nei suoi corrispettivi di dolore, sì da elevarne la piacevole essenza e parimenti conferendogli l’aura di soavità della sorte piacevole, dolce nella sua fragilità, tremendamente affascinante nel suo poter tramutarsi, in un fugace attimo, nel frutto del più avverso fato.  In tale pienezza d’animo e di spirito che egli dentro sentiva pulsare col vigore che solo la più pura passione può dare, la di lei incredibile presenza ed essenza pareva magnificarsi ogni attimo di più nei veli dorati d’una sovrumanità totale, stordente e soverchiante, che insieme poneva il suo essere favolosamente femminile in ambiti divini di dolcezza e leggiadria inarrivabili, giusto come quelli d’un incantesimo virtualmente svanente nel tempo d’un batter di palpebre: quivi era la fonte primaria di quel dolore mesciato all’estrema beatitudine, e ben sapeva egli sentire, pur nell’idillio passionale d’ogni suo atomo, tale leggera punta d’acuminata lancia poggiata al fianco giusto accanto al cuore osannante; ma, ancora una volta, effetto meraviglioso di tale vibrante materia emozionale, nell’irresistibilità di tali emozioni il fascino di Martina s’elevava ancora di più, ancora più in alto, ponendola infine a guisa d’un’incredibile entità super-eonica, parte basilare di quell’Universo impossibile intrecciato con quello reale a creare il dominio spazio-temporale della passione sublime.
Per ciò, per tutto ciò, tentare materialmente di dare una definizione all’immane creatura umanizzata sorella di Phobos, Deimos e Armonia, colmante lo sguardo del fascino assoluto che sola ella poteva donare, realmente significava sfiorare ambiti di blasfemia tremenda, porsi in fronte ad una divinità con il più volgare modo, con una rozza forma di violenza, profanare un simbolo di avvenenza eterna con verbi volanti e svanenti nell’aria impalpabile: l’intelletto cozzava con la insuperabile limitatezza del lessico, incapace pur nei termini più aulici di raggiungere una di lei accettabile rappresentazione gergale, ed in effetti, la sua stessa presenza formava immantinente un nuovo linguaggio, un nuovo modo di porre agli occhi del mondo la grandezza del termine “bellezza” in continue, novelle, straordinarie definizioni.  Il suo corpo perfetto tracciava nel moto tal nuovo lessico, e ondeggiava sinuoso nell’armonia di vita come ondeggia l’etere che l’infinito tutto avviluppa, ove pulsa con ardore l’anima dell’Universo come in essa pulsava il cuore sorgente d’ogni più puro anelito; ogni sua parte pareva per paradosso vivere una vita propria, dotarsi d’un proprio cuore e d’una propria anima, sì che la persona tutta vivesse l’incanto di più essenze e più spiriti, completandosi nel trionfo d’ognuna di esse come mai altro mortale avrebbe potuto eguagliare.
La folta capigliatura bionda leggermente fluttuava nel soffio gentile della brezza dei colli, e le regolari volute come onde dalla schiumosa cuspide dorata s’incurvavano scendendo alle spalle come una terra favolosa bagnando, su soffici arenili di luminosa epidermide: mai corona più stupenda avrebbe potuto cingere un umano viso, mai diadema prezioso avrebbe potuto brillare di preziosità e incanto come quelle ciocche auree, quel casco di seta finissima e brillante sì riflettente il cielo fulgido e la luce di tutte le stelle; lo stesso cielo donava al biondo avviluppo delicate sfumature a volte più chiare e a volte più scure, sì da dare ancor più l’impressione del manifestarsi d’un’immensa vitalità, veramente come un profluvio favoloso d’acqua dorata sospesa magicamente nell’aria, un magnifico crine tessuto da una voluta di seta rubata dalla favolosa reggia di Re Mida.
Tal lucente sfavillio penetrava negli occhi con la forza dirompente d’un emozione assoluta, quasi a voler stendere nell’ampio raggio visivo un vellutato drappo onde accogliere nell’intera sua pienezza affascinante il viso meraviglioso, dolcissimo, finissimo, roseo come la sabbia d’un deserto favoloso ove miraggi di bellezza infinita si generassero di continuo sì da confondere irrefrenabilmente la mente estasiata: come poteva ogni espressione spuntante dai tratti splendidi non essere perfetto simbolo di grazia se non per virtù d’un incantesimo magnifico?  E, d’altronde, come poteva in sì pochi lineamenti di carne concentrarsi tutta la voluttà del mondo, tutta la leggiadria che l’occhio umano può concepire, tutta la soavità che la Natura trionfante può donare in armonia ad un “semplice” viso, così semplice da risultare infine quanto di più umanamente assimilabile alla perfezione più assoluta?  Ma certo, Martina Bezzi era la perfezione, e il viso suo meraviglioso poneva all’occhio ammirato la prima prova di tale sovrumanità, prima e sufficiente a sancire il trionfo di lei su ogni cosa al mondo: la forma ovale stupenda, la fronte luminosa ove parevano riflettersi come su uno schermo cinematografico i di lui pensieri prima di penetrare nell’intelletto anelato, le gote leggermente più rosate, che per certi tratti parevano subitamente incendiarsi d’un rosso emozionale ardente come non mai per poi rarefarsi nel tono come il fuoco aurorale nell’avanzare del giorno disteso, il mento che nella curva sua chiudeva la leggiadrìa facciale con dolcezza ideale, sì da creare l’anfiteatro carnale perfetto per lo strumento aulico da cui parole d’immensa passione dipartivano ad infuocare l’Universo intero…  Quivi, nel trionfo della pelle più rosea, liscia, vellutata come un prezioso velluto di quelli che Genova sì riccamente produceva nei secoli passati, nell’idillio di dolcezza che lineamenti soavi e leggiadri offrivano all’occhio appannato, nell’apoteosi di fattezze sì eleganti e aggraziate che mai artista probabilmente ebbe la fortuna di poter fissare in arte pura diretta ai posteri, due perfette curve d’un rosso vivido più che il sangue sgorgante da un cuore trafitto tracciavano i confini d’un meraviglioso gioiello carnale, due labbra voluttuose nella linea turgida che s’evidenziava nel volto ancor prima che le stesse emettessero dolci suoni lessicali, e nell’insieme d’una tal delicatezza che nuovamente un sentimento duplice si generava nell’animo di Ettore adorante al cospetto: l’uno, avrebbe spinto subitamente le di lui labbra a poggiarsi su quelle meravigliose, a fondere i rispettivi aliti, a suggere dalle linee carnose la linfa vitale necessaria all’esistenza premendo su quelle nel tentativo d’appiccare un fuoco di passione tremendamente bruciante, e infine lasciandosi andare agli ardori ispirati dalle bocche madide di sensualità fermando il tempo si da far risultare l’atto appassionato come l’ultimo, il definitivo per l’infinito intero, glorificato per sempre in quell’attimo fattosi eternità; l’altro, accoglieva stoicamente con gioia immensa il dolore estremo dell’altrettanto estrema difesa di quella bocca perfetta, sì da nemmeno sfiorarla per mantenerne l’idealità meravigliosa, l’artistica perfezione carnale, per far sì che solamente essa potesse emettere sublimi parole d’amore, per non temere di rovinare in qualche modo l’armonia che le labbra rosse creavano nella rosea immagine facciale, come un gioiello talmente inestimabile da rendere rovinoso ogni tocco pur lieve d’una volgare mano mortale.
Ma non solo la bocca perfetta generava una tale girandola d’emozioni nel di lui animo innamorato: teso nella struttura leggiadra e finissima, leggermente curvo nella linea che dalle ciglia sottili scendeva alle narici che l’aria spiravano come il profumo più delizioso o forse che quell’aria stessa emettevano, come se l’alito del mondo uscisse da dentro il corpo eccezionale, il dolcissimo naso confermava nella bellezza della sua forma la genesi carnale nel più ispirato pensiero afrodisiaco, ponendosi a guisa d’un trampolino la cui linea tenuemente ricurva elevava lo sguardo non solo nella scoperta degli altri incommensurabili gioielli del carnale tesoro ma anche spiritualmente a godere di forme che pure nella semplicità ovvia di linee naturali rivelavano che la più gran bellezza mai nulla lascia al gretto caso, palesandosi nell’armonia completa che ogni suo elemento concorda sì da farne nell’insieme la più incredibile sorgente d’emozione profonda.
E gli occhi anelanti di passione e da essa velati come da un velo teso dai sensi per proteggere da tale immane bellezza e di essa comprendere con la giusta quiete interiore la favolosa essenza, con gran gaudio si facevano lanciare dalle linee nasali verso il tesoro dei tesori, la condensazione meravigliosa di tutti i cieli dell’Universo e di tutti i di essi toni favolosi, l’arte senza paragone d’una creatura femminile che ivi condensava la sua potenza luminosa veemente, penetrante nel profondo con la dolcezza d’un soffio gentile ed insieme con il vigore d’una folgore dall’accecante sfavillio di purissimo zaffiro: come armi d’efficacia seduttiva totale, incontrastabili, gli occhi di Martina Bezzi non osservavano il mondo, ma in realtà il mondo intero osservava le iridi meravigliose, sopraffatto da tal soave veemenza estetica, pietre preziose d’inestimabile valore affilate come bisturi sì da penetrare nell’anima in fronte come nel più soffice e inconsistente cotone, indicibilmente luminose nell’azzurro profondo che s’illuminava della purezza dell’anima e dell’essenza, nelle quali egli si gettava, attraverso lo sguardo di quelle iridi, come nella limpida acqua d’una fresca pozza sgorgante per miracolo in un mare di dune desertiche battute dal caldo più terribile.  Negli occhi meravigliosi Ettore vi si perdeva come in un abisso ove precipitare era stupendo, osservare le iridi brillanti e forse leggerissimamente tremolanti come le stelle nel limpido cielo di Dicembre significava la scoperta d’un nuovo stato interiore altrimenti non scopribile, come il giungere su un lontano pianeta ove il cielo rischiari ogni cosa nella soavità dell’azzurro più bello: ed effettivamente un certo non so che d’alieno quasi essi mostravano, per quanto immensa fosse la sovrannaturale bellezza mirabile, per quanto l’azzurro profondo e insieme tenue che s’illuminava nelle iridi pareva irraggiungibile nel tono da qualsiasi elemento terrestre, per quanto essi producessero infiniti sfavillii che incendiavano il di lui cuore, e che nell’animo si tramutavano splendidamente in pensieri di desiderio e di passione scuotenti le membra incessantemente.
Ettore guardava Martina e nel contempo sentiva di guardare il tempo e lo spazio, il presente e il futuro ed egli stesso, i suoi sogni e le sue aspirazioni; sentiva di osservare le iridi splendide come s’osserva in una magica sfera di cristallo ove ogni cosa si materializzi nella sua più completa natura essenziale; comprendeva come di traverso all’azzurro irideo per lui s’aprissero le porte all’anima purissima, e come essa parlasse di traverso quell’azzurro, e nella mente percepiva i soffusi ma certi e ardenti discorsi che come in ogni precedente momento i cuori strabocchevoli di voluttà si scambiavano, con quelle parole non fatte di lettere e sillabe ma di sogni e desideri, il cui suono vibra nel cuore come un diapason fondamentale la cui nota detti la melodia vitale e irrinunciabile.  Infine, parevagli che il suo sguardo si fondesse definitivamente con quello di Martina, forse nella totale ricerca della fusione completa delle due vite, e percepiva una sensazione particolare e difficilmente descrivibile, come una bizzarra frescura di dentro le sue iridi, come veramente se quell’azzurro favoloso avesse trasportato la sua vitale grazia fresca d’un amore infinito nei di lui occhi: il mondo si faceva ancora più bello e più rarefatto, realmente come un sogno ove una doppia visione nobilitasse con la massima vigoria l’essenza d’ogni cosa, raggiungesse la sua comprensione e conquistasse il massimo godimento, una visione duplice come duplice pareva l’Universo in quei frangenti, reale e onirico, lontano da ogni spazio e ogni tempo ed insieme presente nell’ovunque, e come duplice d’intorno rifulgeva Bergamo, sfondo ideale dal cuore di pietra e di piuma, ricco d’arte e di vita, d’amore e di passione carnali e parimenti emozionali, evanescenti.  Tutto quanto ciò vi riconosceva egli nel volto magnifico, negli zaffiri iridei, nell’ansa nasale e nel fuoco labiale: sui tratti stupendi vi si dipingeva tutta l’arte d’una vita emozionante, parevagli di riconoscere nei lineamenti dolci e leggiadri tutta la languidezza sensuale che Tranquillo Cremona pose sui visi angelici delle fanciulle In ascolto, oppure quel falso candore mascherante la più ardente concupiscenza ch’egli vide nella pulzella de La brocca rotta del Greuze custodito nello scrigno parigino del Louvre, ma in fondo tutta un’arte nuova e preziosissima sgorgava dalla figura stupenda, dal viso magnifico come dal corpo voluttuoso, un’arte che era visione e poesia e che Ettore poneva facilmente nella sua mente eccitata e vivacissima con la più gran delicatezza e parimenti col più eccitato vigore sì da preservarli in eterno, in quei frangenti al cospetto del borgo splendido d’intorno, esso meraviglioso in ogni sua parte esteriore e interiore come Martina, due anime radicalmente diverse poiché in realtà mai accostabili ma in fondo entrambe facenti parte dell’immane e incredibile dominio della bellezza più assoluta.
E proprio dal corpo stupendo pareva transitare quell’energia di vita che nel tempo vissuto ammantava ogni cosa, i monumenti della città e della piazzetta pulsante d’ardore estetico come le due anime che in essa vivevano sospese dal mondo e dalla quotidianeità: esso vibrava di quell’onda vitale, da esso prendeva il moto fondamentale l’intero creato, ed ogni mossa disegnava nell’etere soffice tutto un susseguirsi di onde armoniche e concentriche, giusto come quelle che il sasso gettato forma sul piano tranquillo d’uno specchio d’acqua, e il di lui occhio virtuoso godeva di quella visione sovrannaturale, poiché manifestava splendidamente tutta la vigoria sensuale che ella sapeva donare a colui in cospetto: come quando il fervente e devoto adoratore d’un idolo divino si pone finalmente in fronte all’effigie marmorea dell’adorato, e magicamente l’occhio suo pare d’osservare dei moti di vita negli arti litici, sì da creare nell’animo la più grande gioia per l’incontro avvenuto, e il ringraziamento per il dono di fede elargito al fortunato; che poi in effetti l’effigie immobile tale resti nella realtà, al devoto mai interesserà, giacché l’occhio suo saprà fornire all’anima e alla mente entusiasta la prova necessaria al montare del mito incredibilmente vissuto.
Così egli sentiva di vivere i momenti meravigliosi nella di lei compagnia, e la stessa venerazione interiormente sì forte certo suggeva l’energia emozionale necessaria da quelle onde d’armonia e di bellezza da ella scaturenti; nessuna importanza v’era che ivi egli vivesse una realtà o un sogno: era, e ciò era sufficiente.
D’altronde, l’ammirazione d’un corpo sì seducente e sconvolgente non poteva non creare degli impeti di subitanea eccitazione addirittura irreale per la sua stessa natura, dacché diretta a una figura talmente elevata da parere infine troppo irraggiungibile per essere pure solo sfiorata dal pensiero: ma era lì, in fronte a lui, voluttuosa come il profumo d’un ciuffo di rose in un campo assolato nel mezzo della Primavera, eccitante come una scossa elettrica che faccia sobbalzare il corpo e tremare il cuore di subitanei battiti veementi, affascinante come il fascino che soltanto la Natura sa donare all'occhio mortale…  Nel suo corpo meraviglioso Ettore vedeva generarsi visioni di bellezza stordente, di grazia impensabile e d’avvenenza insuperabile; le di lei membra usavano una tale eleganza nei moti pur semplici da parere infine il risultato d’un effigie proveniente dal passato magicamente comparsa nel presente per una improvvisa distorsione temporale, o per qualche altra legge della fisica che ancora la scienza non sa comprendere e decifrare.  Le movenze sì perfette da sembrare studiate al tavolo della genesi estetica nel magnificente palazzo della dea anadiomene, dettate da ella stessa alla discepola ideale a preservare il massimo vertice di bellezza pure nel tempo presente, ponevano nel profondo del di lui animo la certezza incontrovertibile che Martina Bezzi fosse realmente illuminata dalle più alte virtù afrodisiache, e che di esse ella fosse la perfetta custode e tramite nel basso mondo umano dal più alto reame divino.  E le virtù di grazia che ella con sì incredibile naturalezza portava alla visione di Ettore apparivano infine persino impossibili: godeva Martina della magnifica dote di rendere bello ogni suo attimo di vita e ciò che lo stesso conteneva, sia esteticamente che essenzialmente, conferendo a colui che con gran fortuna ad ella s’approssimasse quell’aura di beatitudine che similmente il prima citato devoto percepiva possente al cospetto del tempio del proprio divino preferito, così come ella poteva conferire al proprio corpo ancor più splendore, magnificenza, bellezza, sensualità, voluttà e carnalità grazie alla scelta illuminata dei veli che le dolci membra andavano a ricoprire: la finissima T-Shirt in seta bianchissima, rifulgente della luce esterna come di quella che velava, damascata con eleganti e tenui arabeschi floreali sul bordo delle maniche e su quello inferiore, s’apriva sul petto marmoreo e rosato con un’ampio scollo che nel suo vertice inferiore pareva gettarsi nella floridezza del seno perfetto perdendosi nell’ombra di voluttà tra le turgide mammelle, e quasi simboleggiando quella stessa perdizione che l’infinita delizia sprizzante dal corpo magnifico rendeva unico anelito nel tempo prossimo, con il conseguente, totale abbandono dell’anima nella guida dell’istinto eccitato ed infuocato verso i lidi del piacere erotico più emozionante; larga sulle spalle, viceversa, come magnifico contraltare a quelle immagini d’eros che il seno ispirava, la dolce veste s’apriva sulla gloria vellutata e soffusa del collo perfetto, luminoso nell’epidermide quasi bianca similmente al velo damascato, sul magnifico profilo della linea che univa la gola al petto e alle spalle, e alle scapole: una inenarrabile sensazione di freschezza si spandeva da quella carne nuda e luminosa, ed insieme, veramente, una visione di perfezione e d’armonia che egli mai avrebbe potuto immaginare in una creatura mortale pur nel sogno più fantasmagorico; nel collo sottile eppure forte, i movimenti del capo e il dischiudersi delle labbra per proferire parole disegnavano le linee degli organi interni, della gola e dei nervi, dando realmente l’impressione d’una immensa forza racchiusa nei tratti più dolci e gentili, quasi che per ogni pur minimo moto il corpo meraviglioso esplodesse in un impeto di vigoria energetica vitale nell’interno, per poi questo tramutarsi nel soffio gentile d’una grazia divina nell’immagine catturata tra mille emozioni dagli occhi in fronte: rimembrava Ettore, nella di lei figura, l’inebriante magnificenza delle forme soavi fissate nella possanza del marmo dalle ispirate mani del Canova, che similmente parevano contenere nella durezza litica quella stessa esplosione di vigoria vitale e sensuale, sì da rendere le opere del grande trevigiano come moti e posture perfette fermate in un unico battere dei cigli di creature leggiadre, quasi silfidi luminose nello splendore della bianca, pallidissima pelle che la gran forza dell’artistica genia abbia impresso indelebilmente nella nobile pietra.  E come le marmoree entità create dallo scultore geniale, anche Martina straboccava di sensualità irresistibile, e primo strumento e arma incontrastabile per il dominio d’ogni ambito di bellezza possibile era giusto il gran velluto epidermico, il roseo velo dal tono meraviglioso che, ove l’abbigliamento lasciava che la brezza dolce dei colli cittadini accarezzasse docilmente le carni nude, mostrava al mondo intero l’incredibile miracolo della di lei estetica presenza; come dallo scollo del velo serico, ugualmente le braccia denudate dalle corte maniche damascate liberavano il fulgore abbacinante d’una pelle bianchissima nella vivacità dei raggi solari come e più che il ghiaccio in alta quota, e un soave e roseo tono nell’ombra come una splendida ninfea galleggiante sul fiume della vita: armoniose e perfette negli avambracci e nei polsi, che pur minuti parevano ad egli che reggessero le sorti estetiche dell’intero mondo, trovavano corollario meraviglioso nelle mani splendide dalle dita fini e leggiadre, che in ogni momento parevano muoversi con una tal melodiosa grazia da parere eternamente in moto sulla tastiera d’un pianoforte a intrecciare le note di dolci arie; e il biancore delle unghie, reso più vivo dalla tenue sfumatura rosa che naturalmente v’appariva sulla superficie d’avorio senza ricorso ad alcun maquillage di sorta, tracciava nell’aria limpidamente ombrata tutto un susseguirsi di linee luminose, a guisa d’uno sfavillio magnifico di scintille tratte da un invisibile fuoco, inconsistente eppure ardente alla massima potenza, che l’occhio di Ettore faticava a non seguire, quasi cadendo in una ipnosi estatica la cui influenza sui di lui sensi veniva aumentata - appunto - dall’immane grazia ed eleganza del movimento ditale: v’era in lei come una innata teatralità, mai pesante e ricercata ma viceversa magnificamente spontanea e istintiva, nonché un regalità affascinante che rendeva ogni piccolo tremolio d’una sola falange il moto fondamentale per lo scaturire eterno dell’energia vitale e d’ogni più profonda emozione.
 

VI.

Lo sguardo si perdeva in tale girandola d’emozioni inarrestabile come un sottile filo d’erba strappato dalla terra e portato veementemente nei gorghi d’una tempesta di venti terribili: ancora gli occhi parevano dolorare per non riuscire a comprendere completamente la potenza della di lei visione, quasi che parti fondamentali della meravigliosa essenza si situassero al di fuori d’ogni campo visivo, d’ogni possibile elemento valutabile dai sensi comuni.  In Martina, o sovrapposta alla di lei figura, Ettore vedeva l’anima magnifica, tutto il vorticare di sensualità purissime ed elevate, una miriade d’immagini e visioni dalla forza onirica incredibile; come per causa d’uno stato allucinatorio – ma d’una allucinazione fantastica, bellissima, da vivere per ogni ora della vita e di queste per ogni attimo, facendosi da essa trasportare in un viaggio verso i reali confini del più profondo gaudio e piacere – l’anima dell’amata, fattasi come materia in qualche modo palpabile, di fattura eterea eppure materiale ma assolutamente indefinibile, si fondeva profondamente con tutto l’intorno, con la città bellissima e i suoi storici monumenti, con la Natura rigogliosa d’ogni vitalità arborea e profumata di infinite essenze conservanti nelle dolci fragranze l’alito essenziale della vita, con il cielo che tutto vedeva e tutto proteggeva, al di sotto della vitrea cupola azzurra ove pareva riflettersi tutta la bellezza del mondo sottostante…  E da questo insieme, fuoriusciva poi nell’analisi mentale come un nocciolo essenziale, un centro sostanziale nel quale uno spirito di immensa bellezza tornava alla fonte originaria potenziato massimamente di qualsiasi altra possibile virtù: come se il mondo intero e ciò che ospitava riflettesse la propria parte più bella e vitale al grande ombrello celeste, lì essa si condensasse e acquisisse spiritualità immensa per poi ritornare sulla Terra, concentrata nell’essenza che il tutto pareva generare, compressa nei gentili e leggiadri tratti femminili d’una donna eccezionale, d’una creatura che pareva aver vinto la propria naturale mortalità con la grande forza della bellezza, che ne eternava l’immagine indelebilmente, attraverso lo sguardo, nella mente d’ogni uomo al cospetto.  Ed Ettore Benaglio comprendeva ciò, profondamente, e da ciò traeva la felicità d’una sorte apparsa come d’improvviso una mattina nel fulgore del Sole nascente e trionfante, sentendo già la vita elevata e nobilitata nella vicinanza spaziale e temporale d’una sì favolosa creatura; e tale gioia, per naturale e logica conseguenza – per quella logicità che oramai regnava nel di lui cuore dettando le leggi di vita per ogni attimo prossimo, e ponendo ora e sempre ella come centro di quell’attimo proveniente – ancor più si innalzava nella vigoria dei sensi e delle emozioni nella vista e nella considerazione della bellezza entusiasmante, eccitante, sensualmente stordente, abbagliante il cuore, l’anima e la mente.
Per ciò egli sentiva la più grande entropia nella testa confusa, eppure parimenti godeva dell’idillio che dalla confusione si generava, e si compiaceva che, forse, quel dolce stordimento faceva sì che quei momenti di passione ardente e profonda egli vivesse ancor più intensamente.  Ma se la mente si perdeva soavemente nella foresta intricata delle emozioni più pure e irrefrenabili, e gli occhi rifiutavano pur di cercare una qualche via d’uscita a ciò che in fondo gioivano di poter vivere, e l’anima candidamente riceveva in sé il gran fiume in piena dei sensi eccitati come un’irrinunciabile iniezione d’immensa energia, lo sguardo come per incanto ricuperava tutta la funzionalità smarrita appena le iridi s’appoggiavano delicatamente sulle voluttuose forme corporali, sulle linee di carne che delimitavano il nuovo paradiso, sui tratti procaci ed armoniosi su cui gli occhi scivolavano con la massima delicatezza, che anche lo sguardo pareva poter rappresentare quasi un’onta verso tale perfezione assolutamente divina: ma se da un lato quelle immagini d’infinita grazia ridestavano la concentrazione mentale verso unici ed univoci pensieri di passione scevri d’ombra alcuna di lascivia gretta e così bassamente “umana”, dall’altro le stesse generavano ad ogni attimo, per ogni particella vivente di lei che lo sguardo catturava come una pepita d’oro in un deserto apparentemente senza fortune nascoste, una nuova girandola d’emozioni palpitante freneticamente come il frullo delle ali d’un colibrì, ed ognuna si sovrapponeva all’altra di continuo, potenziandosi di tutta la forza sensuale possibile e subitamente dissolvendosi come in mille e mille scintille di luce purissima, sì da creare lo spazio mentale per una nuova visione.
Così accadeva quando gli occhi anelanti la di lei bellezza s’appoggiavano con il rispetto del più nobile e focoso amante sul bordo damascato della T-Shirt che, come la moda più sensuale suggeriva, si trovava rialzato rispetto alla linea della vita, lasciando che la luce naturale illuminasse tenuemente l’addome perfetto, le linee delle tenui e armoniche masse muscolose appena appena accennate, come si confà al perfetto ideale fisico femminile, e nel centro di quello l’ombelico delicato, che nella di lui mente pareva un gioiello di morbida carnalità posto lì dalla genia artistica della Natura procreatrice a nobilitare un profilo meraviglioso, un diamante il cui centro veramente rappresentava, in quei momenti, non solo il baricentro corporeo dell’amata ma il fulcro del di lui mondo, ovvero il centro del centro, l’unica minima esteriorità della più immensa interiorità.  Come non cedere di schianto a tali simboli di bellezza infinita?  Come non seguire nella pazza e irrefrenabile corsa il cuore con la convulsione sfrenata dei suoi battiti come in una competizione il cui risultato e obiettivo fosse il più alto volo nel trionfo dei sensi assoluto e finale?  Ma certo v’era in lui la consapevolezza che il cedere ad una visione parziale d’un amore sì pienamente desiderato avrebbe privato l’anima e il cuore della sommità necessaria a quel trionfo sperato: come l’osservare una grande opera d’arte per solo due quarti d’essa, o solo per dettagli e particolari e non nell’insieme, lasciarsi andare, insomma, ad una grazia parziale, incompleta, indefinita; v’era inoltre un richiamo della memoria anelante che non considerare era impossibile, un rimando forse voluto – o forse involontario e dettato dall’inconscio - ai beati frangenti antimeridiani della prima visione, generato da che Martina, quel giorno come in quella mattina, indossava la stessa longuette in seta lucida dalle tenui tonalità violette, che rifulgeva un poco alla luce solare generando nelle pieghe del tessuto infinite sfumature dalle più diverse cromaticità, e fondendo il tono particolare col biancore splendente della T-Shirt, creando un accostamento che palesava una volta di più il gusto eccelso che ella mostrava pure nelle più naturali e ovvie cose della vita quotidiana, facendosi simbolo vivente d’una magnificente eleganza d’altri tempi: nella vita bassa, che s’appoggiava alla voluttuosa e accattivante linea che dai fianchi scendeva verso le procaci terga, la veste meravigliosa si gonfiava di quella carnalità sì prorompente eppure leggiadramente perfetta, per niente eccessiva, tale da superare ogni idealità che pur mente artisticamente estetica poteva immaginare per il corpo d’una donna, e disegnando i tratti di voluttà delle cosce e delle terga nell’aria come le stelle disegnano la propria gloria sullo sfondo blu della notte, tracciando linee soavemente luminose, possenti nei raggi ed insieme dolci e tenui; oppure, delineando nell’aria il corpo nell’avviluppo lucido della seta con la stessa perfetta armonia che le note d’una fascinosa melodia tracciano nella mente degli uditori ammirati ed assorti nel musicale effluvio…  Ella era musica di vita, e luce ed aria ed ogni pensabile vitalità; nel suo corpo perfetto v’era il messaggio di gioia della bellezza assoluta che al mondo intero si porgeva, ed in special modo all’anima e al cuore di Ettore, vinti e sfiniti da tale immensa felicità passionale.  Mai egli avrebbe smesso d’osservare i di lei meravigliosi tratti, mai la mente ardente avrebbe terminato di delineare l’amata nei sogni d’anelito profondo come l’opera d’arte, il vertice dell’umana specie, il trionfo della grazia condensata nei tratti d’una creatura femminile.  L’occhio a tratti pareva perdersi in quel carnale universo di trionfante grazia ed estetica virtù, e la mente confusa si rendeva incapace di connettere alcun pensiero dotato di normale logicità; ma ancora lei, sempre lei, centro della di lui vita, nuovamente ridestava i sensi assopiti nel giaciglio del desiderio più concupiscente allorché l’incanto dello sguardo lasciava i già ammirati lidi per porgersi altrove, lungo quei tratti di sogno: come per un immenso affresco improvvisamente materializzatosi in mente con la ricchezza massima di cromatismi e sfumature delicate e insieme forti, subitamente una nuova incredulità emozionale scuoteva dall'inerzia lo sguardo e la mente nell’ammirare la suprema perfezione delle di lei gambe, lisce colonne di bianco-roseo granito che nella leggiadria ed eleganza inarrivabili parevano sorreggere l’intero mondo, armoniose, equilibrate nelle linee dolci dei muscoli e dei nervi, ancora nobilitate dall’epidermide preziosa più che il velo d’una nobildonna di una corte medievale; e i piedi gentili che di quelle gambe erano l’ideale fine, strumento delizioso per trasmettere sulla fredda terra la grazia immane del di lei movimento sublime, dettato da regole fisiche scritte nel cielo della bellezza suprema: contenuti in sandali dall’alto tacco di gustosa fattura, dal disegno simpaticamente rimembrante la cotenna d’un rettile – forse quello stesso rettile che tentò la primeva coppia biblica, forse quello che nel passato glorioso simboleggiava la sapienza, forse quello che il senso comune condannò ad effigie del peccato: ma quale azione sì energizzata e vitalizzata da purissimi sentimenti di passione e d’amore può definirsi peccato?  In fondo, il corpo perfetto dell’amata simboleggiava unitamente il peccato e la redenzione, ovvero il trionfo dei sensi e la cognizione di purezza insita in quel trionfo, l’allontanamento da ogni grettezza bassamente umana, da ogni impurità morale cucita con la forza sui gentili tratti d’una creatura umana come unica veste attraverso la quale rappresentare la creatura stessa…  Nella bellezza immane, definitiva di Martina Bezzi, si rispecchiava la bellezza della vita pienamente vissuta, nobilitata dalla più alta purezza dei sentimenti dettati dall’anima e dal cuore ed elaborati dalla mente appassionata sì da tramutarli in poesia di vita, ovvero ciò che Ettore Benaglio da sempre, in età matura, s’era prefisso come scopo esistenziale: nei di lei tratti meravigliosi, il peccato concepito nella più comune accezione si metamorfizzava, s’impreziosiva dei più elevati sentimenti e delle più elette emozioni, si mesciava con ciò per farsi vertice passionale d’una vita vissuta nei reami della più genuina passione, sospinta lungo il tempo da quella stessa energia di vita che ella sprizzava vigorosamente in ogni attimo da ogni poro e da ella spandente per il creato intero…
Per tal guisa di nobili ed inimitabili virtù, Martina Bezzi veramente pareva incarnare nel massimo splendore la divina essenza anadiomene, elevandola ancor più nello spazio e nel tempo corrente per via dell’immenso incanto di tutta la sua carnale concretezza: ove la dea meravigliosa, nella sua “umana” figura, s’era fissata in una simbolica immagine di grazia tracciata lungo i secoli nella mente dei devoti dagli illuminati tratti degli artisti che nelle opere loro si cimentarono con la sovrumana rappresentazione, ella agli occhi e al cuore di Ettore mostrava la stessa divina essenza estetica nell’ambito della realtà, per ciò paradossalmente quasi rendendosi impalpabile, eterea, divinamente incredibile ovvero, letteralmente, non credibile.  Parimenti, come la divina sua protettrice mostrava nello spirito divino i tratti affascinanti d’una impossibile duplicità, d’una irresistibile carica erotica unita e fusa con un sentimento di verginità e castità delicatissimo e dolce, frammiste nell’impossibile che solo il divino può ammettere - come se per assurdo lo sguardo d’un umano vedesse, una mattina d’un tempo bizzarro, Eolo e Selene, la Luna e il Sole sorgere e tramontare congiuntamente, e fondere le due luminosità, la possanza travolgente ed abbacinante dell’uno con la tenue e soave lattiginosità eterea dell’altra – Martina godeva delle indicibili virtù di tramutare l’elemento di lascivia in elemento di grazia e purezza, di far che la libido irrefrenabile s’ammantasse di nobiltà ed eleganza, avviluppando ogni cosa in un’aura di sensualità vitale ed energetica sì da rendere l’attrazione ch’egli provava per lei nell’irrinunciabile ed elevato scopo per l’intera vita.  Nella sinuosità eccitante delle forme del suo corpo, che appunto egli osservava non tanto e non solo come semplice figura corporale ma semmai come immensa, infinita opera d’arte umana suscitante eterna ammirazione e passione, Martina Bezzi tramutava l’irresistibile, stordente, veemente ed infuocata voluttà carnale, la trasfigurava, l’agghindava delle preziose e inestimabili vesti della bellezza ultima, assoluta, la nobilitava con l’aura dorata della innata eleganza sublime e suprema per infine renderla in fronte all’anima e al cuore anelanti e affascinati come un unico insieme di indefinibile essenza, troppo grande, troppo bello, ancora una volta, per cercare nel lessico solito definizioni comunque limitanti all’eccesso; ella rendeva il peccato virtù, l’ardente sessualità rarefatta innocenza, l’impeto dei sensi la forza stessa della vita, per ciò irrinunciabile, per ciò fondamentale in ogni attimo vitale.  Ogni voluttuoso trionfo dell’avvenenza che ella portava seco sublimato nei tratti perfetti delle sue membra, contribuiva alla genesi eccelsa e illuminata d’un’immagine insieme divina e umana – altra ulteriore, meravigliosa dualità – nella quale ogni confine tra la realtà e il sogno, tra il desiderio e la concretezza, tra l’anima e la carne cadevano inesorabilmente, vinti dalla virtù immensa che in Martina pulsava vigorosamente come pulsava nella divina essenza afrodisiaca in trasfigurazione: nei gentili piedi le cui unghie curate tracciavano sulla fredda pietra cittadina che ogni passo vide in moto nei secoli passati come eburnee linee tenuemente luminose, che se fissate l’una dopo l’altra nella mente dagli occhi ammiranti formavano il disegno d’una meravigliosa danza di soave eleganza e fascino e raffinatezza, come se il passo si svolgesse nell’aria più limpida e gli arti muovessero come le ali d’un maestoso volatile, supremo nella regalità del suo celeste volo; nelle gambe che da quei deliziosi piedi parevano prendere il più incredibile slancio carnale nel tracciare lineamenti d’una tale armoniosità da rendere pessime copie d’una bruttura antiestetica i femminei bronzi leggiadri dell’Ammannati, colonne di marmorea voluttà finemente rosate dal colorito epidermico che dall’Universo intero pareva cogliere ogni possibile sfumatura di colore per mesciarla, fonderla e trattarla sì da generare un nuovo tono d’indicibile fascino, perfette nell’equilibrio delle forme, turgide e procaci nel salire verso i fianchi portando seco lo sguardo febbricitante d’un virus di passione dalla cura sconosciuta; e in quei fianchi ondosi come nel mare onde imponenti si generano nel pieno d’una tempesta veemente, ma la cui vigoria mirava dritta al di lui cuore, sconvolgendolo d’una visione d’ebbrezza potentissima negli effetti sull’anima e sulla mente, nelle terga le cui curve linee davano quella morbida sinuosità al corpo che parimenti ammorbidiva ogni pensiero sfuggente dalla mente abbagliata, rendendo ogni cosa come parte d’un sogno stupendo avviluppato a quelle flessuosità, come se esse fossero il percorso in essere dello spazio e del tempo, soffici tratti carnali come soffici diventano le membra languenti su un giaciglio di passione concretizzatosi da un sogno apparentemente irraggiungibile...
E veramente come in un mondo favolosamente onirico appariva lei, la sua figura, la sua essenza, la sua bellezza: sull’addome liscio e ricurvo che pareva invitare all’estrema libido nascosta nelle più intime vesti, oppure nel seno magnifico, continuante la magia di quella sinuosità prima accennata, così perfetto nelle forme, così eccitante nel gonfiare le vesti eppure, parimenti, per forza del consueto incanto, così gentile nel mostrare la di lei massima grazia erotica con tale eleganza carnale, nobilitante il corpo tutto come un gioiello d’inestimabile valore rende preziosa qualsiasi veste, illuminandola di nobiltà e classe resa poi purissima sostanza in qualsiasi sguardo; l’armoniosità favolosa delle braccia e delle spalle, il corpo che pareva tendersi nei nervi quasi a voler spiccare un volo nella purezza del cielo come se ancora provvisto d’ali meravigliose fatte di elegante sensualità, ma che in effetti forniva lo slancio emozionale necessario a che lo sguardo appassionato ed ardente potesse concepire l’infinita grazia del viso, i tratti dolcissimi e soavi, puri come il soffio del vento più leggero d’un’alba nella Natura incontaminata, fantastici come l’immagine mentale che qualsiasi artista avrebbe voluto fissare in artistici tratti su una bianca tela o ricavati nella durezza d’un blocco di roccia, ma infine talmente elevati nell’avvenenza da risultare inimitabili, inconcepibili, troppo grandi nell’essenza per poter essere pienamente compresi da una “semplice” e pur geniale mente umana…
Tornava più volte, nella mente di Ettore, quest’immagine di bellezza assoluta e irraggiungibile, che il pensiero concepiva in continui bagliori pulsanti col ritmo dei battiti cardiaci in ambiti di sogno, e veramente, nuovamente, infinitamente un sogno pareva ad egli di vivere, quando il percorso irideo mai stanco d’osservare la suprema grazia femminile in fronte s’incrociava e si fondeva con la luce purissima degli occhi di Martina, zaffiri inestimabili più che le pietre di egual fattura affioranti dalle favolose lande del Kashmir, gioielli inimitabili ove era troppo facile, e troppo bello, perdere ogni cognizione di realtà, ogni sensazione di concretezza temporale come planare sulle volute d’una densa corrente di voluttà osservando un reame di bellezza impossibile; poi, in un attimo subitaneo, ancora la mente cercava come di reagire da quello stato di soave rapimento, di ipnotica sospensione vitale, d’abbandono d’ogni freno al completo dominio della passione, e gli occhi si empivano della fortissima luminosità delle voluminose ciocche biondo-ambrate e delle altre un poco più scure, in una varietà di toni che creava nella capigliatura l’immagine d’una fantasia di colori degna d’un ritratto femminile del miglior preraffaellita.  Ma nuovamente lo sguardo confuso da siffatta pienezza estetica tornava a dialogare di infiniti fremiti iridei con i di lei occhi, un linguaggio di passione e desiderio espressivo come non mai e assolutamente irrefrenabile: entrambi parevano cercarsi nelle pupille leggermente inumidite da un velo non già di lacrime quanto di gocce di pura ebbrezza, e parlarsi sugli sguardi incrociati di quelle parole che nessun lessico mai conoscerà, quelle parole che il cuore genera, che l’anima nobilita, che la mente infiamma e che la bocca infine non sa dire, se non tramutandole nella reciproca suzione degli aliti profumati d’amore, nei più ardenti e incontenibili baci, inviti veementi al definitivo trionfo della più eccitata concupiscenza.
 

VII.

Così i due giovani appassionati restavano, al centro della piazzetta del Duomo come nel centro del mondo e d’ogni cosa: le dita intrecciate vicendevolmente, le mani unite, i corpi vicini sì da percepire lo scambio di calore emesso dalla pelle e, ancor più, l’inarrestabile onda emozionale sgorgante dalle anime già unite nel profondo…
L’immagine di lei, negli occhi e nella mente di Ettore, si fondeva con l’Universo intero: come un unico ambito di luce riusciva solamente a delineare il pensiero suo, come una singola, uniforme luminosità nella qual aura priva di confine tutto si fondeva, si mesciava, si scomponeva in infinite particelle sfavillanti d’ogni sentimento più acceso e profondo: passione, desiderio, voluttà, erotismo, amore e insieme purezza, dolcezza, soffusa grazia e rarefatta raffinatezza.  Nuovamente la visione duplice portava il mondo agli occhi di Ettore come quell’ambito olimpico nel quale egli credeva in quei momenti d’essere, una duplicità cullante soavemente tra le virtù e le cupidigie dell’una e dell’altra parte, diffusa ovunque e ovunque facilmente rintracciabile: forse non anche Bergamo s’era constatato come godesse d’un’anima cittadina doppia, d’un’essenza duplicata unita eppur divisa da mille differenze comunque nobilitanti il gran nome del borgo orobico?  Stesa placidamente e mollemente, quasi, nel gran piano tra i due fiumi impetuosi che dalle valli alpine sgorgavano con l’impeto primevo della Natura creatrice, nella sua essenza più moderna, industriosa, contemporanea, tesa al raggiungimento della massima concretezza, d’una vita convulsamente attiva e irrefrenabile sì da reggere la corsa folle del tempo corrente, un’anima nobilitata non più in quelle vie dall’antico blasone quanto invece dall’operosità inimitabile del popolo laborioso; l’altra anima, quella elevata sul monte, celeste, divina quasi come già osservato, il borgo sublime appoggiato al colle e da esso dominante la sua parte bassa, cinto da alte e insuperabili mura non solo arrestanti nel passato l’impeto barbarico devastatore ma pure, magicamente, l’attacco disgregatore del tempo, conservando quell’essenza magnifica e preziosa che ora, ancora e sempre, penetra sottilmente e dolcemente nel cuore di colui che tra le vie antiche vi si ritrova, riempie l’animo di mille emozione elevate, lo trasporta con essa verso la cerulea cupola celeste come per sospendersi dal presente, tramutarsi in anima immutabile, per sempre avviluppata dalle più alte grazie che la bellezza assoluta possa concedere…
Per tali virtù Bergamo naturalmente si eleggeva a dimora di quella stessa bellezza che rappresentava, e per tali fortune la città sul colle pareva l’ideale immagine contemporanea delle passate glorie olimpiche, sede d’una sovrumana essenza che ogni cosa bella conservava, difendeva, proteggeva e trasportava nel tempo inarrestabile senza che lo stesso potesse agire nefastamente: bellissima come la più bella stella del cielo, giusto come l’astro della dea sublime, Espero e Lucifero, illuminante più d’ogni altro la notte terrestre sulla cui cupola tenebrosa si volge lo sguardo dell’uomo appassionato, come per ricercare nel mistero cosmico risposte d’amore a pari domande, come a rintracciare il consenso divino ivi residente ad un desiderio di voluttà.  E ad Ettore Benaglio pareva, anzi, ne era certo, che quel cielo che le passioni sì bene conserva e tramuta in impalpabili luminosità avesse veramente risposto, avesse illuminato l’anima sua come un’altra anima, un’anima meravigliosa, cinta in una figura inestimabile, di troppo elevata bellezza, grazia ed eleganza per poter essere pienamente constatata: e vedeva in quella figura appunto elegante oltre ogni dire tutta l’eleganza del tremolio stellare, la dolcezza dei soffusi raggi astrali che la stella protettrice inviava ad ella ed ella rifletteva, in quei frangenti quando invece gli impeti subitanei della voluttà più ardente non vi avessero osservato, viceversa, abbagliante, la potenza baluginante e pienamente avviluppante d’un immenso Sole.  Ma, come dire, pur in tutta la sua irresistibile avvenenza, Martina Bezzi sapeva tramutare l’impeto veemente in dolce eleganza, per ciò ancora più invincibile, trascinante, stordente: e l’unione di tali immense virtù rendeva ella veramente un essere di luce purissima, intaccabile da alcun agente inquinante, come tanti se ne potevano ritrovare nel tempo corrente.  Ecco allora che appariva agli occhi di Ettore la fusione sublime di tutte quelle immagini di bellezza infinita, ecco che la di lei anima e immagine si faceva come un fuoco rosso di passione e dorato d’amore intenso, da cui scaturivano miriadi di faville ognuna immagine di grazia ardente, e in quel fuoco egli si scioglieva, da quel fuoco egli si faceva avviluppare, abbandonandosi al calore intenso, sentendo bollire nelle vene tutto il sangue come un fiume lavico superante ogni ostacolo per viaggiare veloce verso una meta d’amore e di sentimento da bruciare, bruciare e bruciare…  E nella luminosità generata s’illuminava tutto l’intorno, tutta Bergamo, perfetta e preziosa alcova per il sogno di passione realizzato, e i palazzi nobili si facevano dorati e anch’essi sfavillanti, riflettevano la luce sublime e in essa si fondevano, innalzandone la potenza essenziale al suo massimo, facendosi parte integrante d’un ardente sogno vibrante d’ogni più alta emozione che rendeva l’antico borgo sul colle rilucente per l’Universo intero, baluginante d’una purissima luminosità, di quella luce che solamente può scaturire da un’unione di anime realmente pura.
Per assurdo, quel viaggiatore giungente dalla pianura al cospetto della città magnifica, per guisa di quell’incantesimo che Ettore Benaglio e Martina Bezzi sentivano nei cuori e nelle anime, per quella magia che dalle loro essenze scaturiva potentissima, talmente potente da rendersi in qualche modo favolosamente manifesta pure ad anime estranee, per quelle virtù che già Bergamo conservava e manifestava, e che sapeva innalzare ancor più nel loro impulso di passione, quel viaggiatore avrebbe osservato la città bruciare in un fuoco immenso e abbagliante, intenso e irrefrenabile, tutta la città avviluppata nel più grande sfavillio immaginabile, in una girandola di colori accecanti e spaventosamente intensi…  Ma non avrebbe temuto nulla, non avrebbe patito alcun sconvolgimento, non avrebbe percepito l’animo contorcersi dall’estremo dolore per il rogo distruttore della grazia orobica: no, nel gran bagliore i monumenti sublimi si sarebbero ancor più illuminati, i profili delle storiche moli avrebbero riflesso nel cielo la doratura meravigliosa di cui rifulgevano, la città intera sarebbe parsa veramente, definitivamente divina.  Ed anche nello sguardo e nell’animo del viaggiante ammiratore, le fiamme altissime si sarebbe trasfigurate in altrettanto alte emozioni, nella luminosa immagine d’una evidente, immensa passione: anch’egli, vinto ed emozionato da tale gaudiosa rappresentazione di sconosciuta potenza emotiva, avrebbe percepito che lassù, sul colle dominatore, nella cinta suprema e invincibile, tra le dimore nobili e atemporali nella loro eterna essenza artistica ed estetica, tra tutti quei simboli di bellezza preziosa e inimitabile, un’altra ancor maggiore bellezza si stava tramutando nella più sublime passione, pura, travolgente e irrefrenabile; e un fremito gaudioso, subitaneo, avrebbe anche in egli fatto vibrare un poco, in un attimo intenso, il cuore e lo spirito.
 
 
 
 

 

 

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